Attivista indiano: sentenza su Bhopal, “simbolo” di una giustizia fallimentare
di Nirmala Carvalho
Lenin Raghuvanshi, direttore Pvchr, parla di “giorno nero” per i sopravvissuti alla tragedia. La condanna a due anni di prigione per gli imputati – già liberi su cauzione – mostra le carenze di un sistema “impotente di fronte alle elite internazionali”. Il governo del Madhya Pradesh annuncia un ricorso in appello.
New Delhi (AsiaNews) – “È un giorno nero per i sopravvissuti della tragedia di Bhopal. La sentenza non è frutto della legge, ma solo fumo negli occhi dopo due decenni di impunità” oltre che il “simbolo di una giustizia fallimentare, in una democrazia deficitaria”. È durissimo il giudizio di Lenin Raghuvanshi, direttore della Commissione indiana per i diritti umani (Pvchr) e premio Gwanju (il “Nobel asiatico”) nel 2007, sulla recente sentenza del tribunale cittadino che ha condannato otto persone per l’incidente del 1984 alla Union Carbide. Per l’ingente fuoriuscita di gas di cianuro, che ha causato oltre 15mila morti e 600mila intossicati, i giudici hanno emesso condanne a due anni di carcere e 100mila rupie di multa (circa 1700 euro). Secondo l’attivista la sentenza – che ha scatenato le proteste dei parenti delle vittime – “è un fatto ancora più grave”.
Intanto il governo del Madhya Pradesh ha deciso di ricorrere in appello contro la sentenza, che ha sollevato proteste in tutto il mondo. Lo ha annunciato oggi il Ministro capo Shivraj Singh Chouhan, che aggiunge: il Bharatiya Janata Party (Bjp), partito di maggioranza nello Stato, formerà un comitato per studiare gli aspetti legali, prima di presentare l’istanza.
Sulla vicenda è intervenuto anche Veerappa Moily, ministro della giustizia, che parla di un caso “non ancora chiuso”. Egli sottolinea che Warren Anderson, capo di Union Carbide ai tempi del disastro, deve rispondere dei capi di imputazione. Un funzionario del governo Usa, invece, spera che la sentenza metta la parola “fine” sul caso.
Lenin Raghuvanshi parla di “un ribaltamento” della giustizia: “cosa vi può essere di più sovversivo – si domanda – che dare due anni di carcere a quanti sono responsabili della morte di oltre 15mila persone”, insieme a “danni gravissimi alla salute per oltre mezzo milione di abitanti” dell’area affetta dalla fuoriuscita di gas velenoso. Egli aggiunge che tutti gli imputati, eccetto uno che è malato, “sono stati rilasciati su cauzione a due ore dall’emissione del giudizio di colpevolezza”. A questo si unisce il fatto che Warren Anderson “non è mai comparso davanti ai giudici”.
Il "premio Nobel asiatico" sottolinea che “il verdetto ha, giustamente, indignato non solo la gente in India, ma in tutto il mondo”. E aggiunge: “è un caso esemplare da studiare, per capire quello che non funziona del sistema giudiziario indiano” ed è anche un esempio del “celebre aforisma: la giustizia rinviata, è una giustizia negata”. La sentenza è arrivata a 26 anni di distanza dall’incidente e, per tutta la durata del processo, “il pubblico ministero è stato dalla parte dei colpevoli, piuttosto che delle vittime”.
In alcune zone dell’India fra cui Manipur, il Jammu-Kashmir, teatro di rivolte e di conflitti, lo Stato centrale favorisce l’intervento di esercito e reparti paramilitari, coprendone violazioni e abusi dei diritti democratici, “in nome della legge e dell’ordine”. “La sola cosa che cambia nel caso di Bhopal – sottolinea Lenin Raghuvanshi – è il modus operandi. Invece di sostenere nel concreto i criminali, lo Stato li aiuta con atti di omissione”.
Il caso più clamoroso riguarda Warren Anderson, l’allora presidente di Union Carbide Corporation degli Stati Uniti, che si è reso latitante per non comparire in tribunale. “È frustrante che non vi siano provvedimenti – puntualizza l’attivista – contro la compagnia multinazionale. Ciò dimostra che la legge non può nulla di fronte alle potenti elite internazionali”. L’incidente, invece, avrebbe dovuto “assicurare norme rigorose in materia di sicurezza industriale e nella responsabilità delle corporazioni”.
La conclusione di Lenin Raghuvanshi è amara e comprende l’intero modello della democrazia indiana: “Il verdetto prova che l’India sta fallendo, se non è già fallita in quanto Stato. Lontano dall’essere il modello della più grande democrazia al mondo – chiosa – non è niente di più che una Repubblica delle banane. È una nazione dove gli assassini dei cittadini comuni, che siano a Manipur o nel Madhya Pradesh, possono circolare liberi e impuniti”. L’India è uno Stato, conclude l’attivista, che “protegge gli interessi delle corporazioni, al prezzo della gente comune”.
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