Ancora scioperi in Cina: si ferma la Toyota
I lavoratori incrociano le braccia per il terzo giorno consecutivo: vogliono un aumento dei salari e del bonus di fine anno. Il sindacalista Han Dongfang spiega: “Dopo 30 anni di sviluppo, si vedono le prime crepe. Pechino tratti i lavoratori con il rispetto che meritano”.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Non si ferma l’ondata di scioperi che nell’ultimo mese ha colpito la Cina: il gigante giapponese Toyota conferma che la propria fabbrica di Guangzhou è ancora ferma, per il terzo giorno consecutivo, mentre la rivale Honda è riuscita a riprendere la produzione soltanto dopo aver ceduto su tutta la linea alle richieste degli operai. Il sindacalista Han Dongfang commenta: “Trent’anni di repressione stanno finendo. I lavoratori hanno preso in mano il loro destino”.
La produzione della Toyota si è interrotta lo scorso 22 giugno, dopo che gli operai della Denso Corp. – un’affiliata che produce iniezioni per autovetture – hanno incrociato le braccia: la catena si è interrotta e alcuni operai della casa madre si sono uniti ai colleghi. Si tratta di oltre 200 lavoratori, che chiedono un aumento dei salari e una riduzione delle ore di lavoro obbligatori. I portavoce della compagnia confermano: “La produzione rimane sospesa, mentre vanno avanti le trattative”.
Si tratta del secondo grande sciopero che colpisce la Toyota, dopo quello durato tre giorni che ha fermato il lavoro della fabbrica di Tianjin, nel nord del Paese. Gli operai chiedono un aumento dei salari da 1.200 a 1.700 yuan mensili (poco più di 170 euro) e vogliono che la dirigenza aumenti il bonus di fine anno da 1.200 a 6.800 yuan (circa 680 euro). I dirigenti hanno approvato l’aumento salariale ma non vogliono toccare il bonus finale.
La rivale Honda, invece, ha ceduto su tutta la linea e ha convinto gli operai a tornare a lavoro nelle fabbriche di Huangpu e Zengcheng, entrambi zone industriali di Guangzhou. Nella trattativa è intervenuto uno dei vicepresidenti locali dell’industria, che è anche deputato all’Assemblea nazionale del popolo di Pechino.
Il governo teme questi scioperi, ma sta adottando una linea ambivalente per affrontarli. Da una parte biasima l’atteggiamento degli industriali stranieri, che devono trattare meglio gli operai; sulla questione è intervenuto persino il premier Wen Jiabao, che ha definito i migranti “figli della nazione”. Dall’altra, però, il governo centrale ha chiesto alla polizia “di gestire in prima persona tutte quelle situazioni che possono mettere a rischio la stabilità interna”.
Il sindacalista cinese Han Dongfang, fondatore del China Labour Bulletin, commenta: “Dopo 30 anni di riforme e spettacolare crescita economica, si iniziano a vedere le crepe. I lavoratori che hanno creato il miracolo economico cinese si sono stancati di essere trattati come animali, lavorando molto tempo in condizioni pericolose per pochi soldi. Ora dicono basta, e chiedono non soltanto i loro diritti legali ma proprio un migliore standard di vita”.
Ora, aggiunge, “i lavoratori hanno preso in mano il proprio destino, anche perché i sindacati (dove sono presenti) sono fantocci del governo. Una soluzione potrebbe essere quella di ridurre il prezzo quotidiano che gli operai pagano per alloggi e alimentazione, per sanità e servizi sociali. Ma dobbiamo smetterla di chiamarli migranti: i lavoratori sono lavoratori, e devono essere trattati con dignità e rispetto”.
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