Anatomia della paura. Una democrazia sunnita in difesa dei cristiani
di Élie Fayad
L’opinionista libanese Élie Fayad si interroga sulle prospettive politiche della primavera araba e sui timori cristiani di una deriva radicale islamica: “Non è giunto il tempo in oriente di dare una possibilità alla democrazia sunnita?”.
Beirut (AsiaNews) – Grazie alla cortesia di «L’Orient-le jour », noto quotidiano libanese, pubblichiamo questo articolo di Élie Fayad sulla primavera araba, i timori e le prospettive delle minoranze cristiane.
La paura è cattiva consigliera, dice il senso comune. Che sia fondata o no, dichiarata o nascosta, gonfiata o discreta, è sempre cattiva consigliera. In questo inizio del terzo millennio dell’era cristiana, i cristiani d’oriente hanno paura. E a ragione: nel 1920, alla caduta dell’Impero ottomano, contavano un buon quinto della popolazione della regione formata dagli Stati dell’antica Mezzaluna fertile (Libano, Siria, Palestina, Giordania e Iraq). Poco meno di un secolo più tardi le cifre precise mancano, ma non c’è dubbio che ad eccezione del Libano il limite del dieci per cento qui e del cinque per cento sia stato dappertutto varcato, al ribasso.
Questa evoluzione negativa non costituisce di per sé una diagnosi degli elementi costitutivi della paura dei cristiani; è solo l’espressione materiale di questa diagnosi, e in questo senso riflette l’ampiezza del fenomeno conseguente alla paura: l’emigrazione verso altri cieli.
Subito, una costante inquietante si impone, anche se non sembra, fino ad ora, abbia turbato oltre misura le meningi degli storici; forse perché va controcorrente, rispetto a un buon numero di idee ricevute. E cioè che questa drammatica diminuzione di effettivi cristiani nella regione si è prodotta nel secolo che è seguito alla sparizione dell’ultimo impero islamico sunnita retto da un potere del genere del califfato.
Non si deve dedurre da questa riflessione che i cristiani d’oriente non hanno prospettive di sopravvivenza che in un ritorno del califfato. Il regno dei Mamelucchi, che è durato vari secoli prima degli Ottomani, è stato anch’esso quasi fatale per i cristiani: secondo studi realizzati in Francia, nel 1516, l’anno in cui la regione è passata dal regime dei mamelucchi a quello della Sublime Porta, i cristiani non rappresentavano che il 7% della popolazione. E’ dunque nel corso dei quattro secoli seguenti che la loro proporzione si sarebbe praticamente triplicata.
Senza voler fare in nessun modo l’apologia di un impero che, per molti aspetti, fu direttamente responsabile nel tenere i popoli che ne dipendevano in uno stato di arretratezza e di miseria, bisogna però riconoscere un semplice fatto storico: il regno ottomano fu un periodo di espansione della presenza cristiana in oriente.
Una constatazione conduce a un’altra: in Turchia stessa, malgrado l’indipendenza greca ottenuta nel 1830, numerose grandi città, compresa la capitale dell’impero, Costantinopoli, restarono a maggioranza cristiana (greci, armeni, latini ecc.) fino alla fine del secolo XIX. Stranamente, è con l’avvento del nazionalismo detto “laico” , precisamente nel 1908, che ebbe inizio la curva tragicamente in discesa della presenza cristiana. Il fatto che la data ufficiale della caduta del regime ottomano non avvenne che dodici anni più tardi continua a ingannare molte persone sulla responsabilità degli avvenimento di quel periodo. Così, quando durante la Prima guerra mondiale fu presa la decisione del genocidio degli armeni, questo accadde per mano dei veri detentori del potere dell’epoca, cioè i nazionalisti “laici”, e non dal regime di un sultano già ridotto allo stato di soprammobile polveroso.
Più tardi Orhan Pamuk, premio Nobel della letteratura, evocherà nel suo magnifico libro di ricordi d’infanzia, Istanbul, le specie di “mini pogrom” che conosceranno i cristiani turchi negli anni ’50 e ’60, senza che il regime laico “muscolare” non trovi nulla da ridire. Questi attacchi ripetuti metteranno praticamente fine a una presenza cristiana pluri-millenaria in quella che fu la “Seconda Roma” e in Anatolia. Se la conquista islamica del 1453 ha messo fine al potere politico cristiano, l’esistenza fisica dei cristiani non fu annientata, per sempre se non dal “laico” XX secolo.
***
Rovesciare qualche pregiudizio storico non significa tuttavia che si debba negare l’esistenza di un grosso problema islamico che spinge in permanenza le minoranze dell’oriente, e in particolare i cristiani, a interrogarsi sul loro avvenire. E’ dunque perfettamente legittimo per un capo di una Chiesa orientale farsi eco di questo interrogativo. Salvo che il diritto di porre delle buone domande non giustifica mai il diritto di dare cattive risposte.
Ahimé, oggi in Libano, come altrove nella regione, sono numerosi i cristiani che si aggrappano alle risposte peggiori. E la tesi dell’alleanza delle minoranze sotto il coperchio di una dittatura tirannica che fa uso di menzogne ideologiche e politiche per mantenere la sua sopravvivenza ed egemonia è senza dubbio la peggiore fra esse.
Una dozzina di anni fa, alla “belle époque” della tutela siriana in Libano, un ministro libanese degli esteri conosciuto per le sua buone relazioni con Damasco, affermava senza complessi – in privato, certo – che per poter durare, il regime degli Assad non aveva altra scelta che quella di governare i sunniti con l’arabismo; cioè con il continuo rilancio del nazionalismo anti-israeliano. E cioè la cosiddetta “moumanaa” (“immunizzazione” rispetto all’influenza occidentale, n.d.t.).
Ora, una delle caratteristiche maggiori che si possono osservare nelle diverse espressioni della primavera araba in corso è precisamente la perdita di valore del mito di questa “moumanaa”. A poco a poco è messa a nudo, spogliata del verbalismo che si sforzava di nascondere la sua natura, fondamentalmente fittizia e menzognera. Che questa foglia di vite utilizzata dai teorici dell’alleanza delle minoranze cada non è che giusto, dopo tutto. Ma la vera domanda è altrove, è di ordine pratico: una volta che viene meno la “moumanaa”, dietro che cosa si nasconderanno le “minoranze alleate”?
Il mondo sunnita di apre ormai a noi, nella sua immensità e nelle sue contraddizionei, i suoi liberali, i suoi conservatori e i suoi salafiti. Tocca a noi saper trattare con esso in maniera diversa dallo stigmatizzarlo immediatamente quando constatiamo, spaventati, che non abbiamo più i mezzi per imbrigliarlo.
Ora, almeno per quanto concerne il Libano, bisogna essere completamente ciechi per non vedere che, da un certo numero di anni, c’è un miracolo sunnita libanese fino ad ora unico nel mondo arabo, rappresentato dal predominio massiccio di una corrente liberale nel seno della comunità. Che questa corrente sia condotta a camminare a tentoni, a commettere errori e persino a giocare all’apprendista stregone con i salafiti non autorizza nessuno, anche coloro che contestano – è il loro diritto – la sua politica economica e sociale, a dubitare della sua essenza liberale.
La democrazia cristiana ha conosciuto molti sbandamenti prima di diventare questo partito vistoso che si trova oggi alla testa di vari governi europei. Non è giunto il tempo in oriente di dare una possibilità alla democrazia sunnita?
La paura è cattiva consigliera, dice il senso comune. Che sia fondata o no, dichiarata o nascosta, gonfiata o discreta, è sempre cattiva consigliera. In questo inizio del terzo millennio dell’era cristiana, i cristiani d’oriente hanno paura. E a ragione: nel 1920, alla caduta dell’Impero ottomano, contavano un buon quinto della popolazione della regione formata dagli Stati dell’antica Mezzaluna fertile (Libano, Siria, Palestina, Giordania e Iraq). Poco meno di un secolo più tardi le cifre precise mancano, ma non c’è dubbio che ad eccezione del Libano il limite del dieci per cento qui e del cinque per cento sia stato dappertutto varcato, al ribasso.
Questa evoluzione negativa non costituisce di per sé una diagnosi degli elementi costitutivi della paura dei cristiani; è solo l’espressione materiale di questa diagnosi, e in questo senso riflette l’ampiezza del fenomeno conseguente alla paura: l’emigrazione verso altri cieli.
Subito, una costante inquietante si impone, anche se non sembra, fino ad ora, abbia turbato oltre misura le meningi degli storici; forse perché va controcorrente, rispetto a un buon numero di idee ricevute. E cioè che questa drammatica diminuzione di effettivi cristiani nella regione si è prodotta nel secolo che è seguito alla sparizione dell’ultimo impero islamico sunnita retto da un potere del genere del califfato.
Non si deve dedurre da questa riflessione che i cristiani d’oriente non hanno prospettive di sopravvivenza che in un ritorno del califfato. Il regno dei Mamelucchi, che è durato vari secoli prima degli Ottomani, è stato anch’esso quasi fatale per i cristiani: secondo studi realizzati in Francia, nel 1516, l’anno in cui la regione è passata dal regime dei mamelucchi a quello della Sublime Porta, i cristiani non rappresentavano che il 7% della popolazione. E’ dunque nel corso dei quattro secoli seguenti che la loro proporzione si sarebbe praticamente triplicata.
Senza voler fare in nessun modo l’apologia di un impero che, per molti aspetti, fu direttamente responsabile nel tenere i popoli che ne dipendevano in uno stato di arretratezza e di miseria, bisogna però riconoscere un semplice fatto storico: il regno ottomano fu un periodo di espansione della presenza cristiana in oriente.
Una constatazione conduce a un’altra: in Turchia stessa, malgrado l’indipendenza greca ottenuta nel 1830, numerose grandi città, compresa la capitale dell’impero, Costantinopoli, restarono a maggioranza cristiana (greci, armeni, latini ecc.) fino alla fine del secolo XIX. Stranamente, è con l’avvento del nazionalismo detto “laico” , precisamente nel 1908, che ebbe inizio la curva tragicamente in discesa della presenza cristiana. Il fatto che la data ufficiale della caduta del regime ottomano non avvenne che dodici anni più tardi continua a ingannare molte persone sulla responsabilità degli avvenimento di quel periodo. Così, quando durante la Prima guerra mondiale fu presa la decisione del genocidio degli armeni, questo accadde per mano dei veri detentori del potere dell’epoca, cioè i nazionalisti “laici”, e non dal regime di un sultano già ridotto allo stato di soprammobile polveroso.
Più tardi Orhan Pamuk, premio Nobel della letteratura, evocherà nel suo magnifico libro di ricordi d’infanzia, Istanbul, le specie di “mini pogrom” che conosceranno i cristiani turchi negli anni ’50 e ’60, senza che il regime laico “muscolare” non trovi nulla da ridire. Questi attacchi ripetuti metteranno praticamente fine a una presenza cristiana pluri-millenaria in quella che fu la “Seconda Roma” e in Anatolia. Se la conquista islamica del 1453 ha messo fine al potere politico cristiano, l’esistenza fisica dei cristiani non fu annientata, per sempre se non dal “laico” XX secolo.
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Rovesciare qualche pregiudizio storico non significa tuttavia che si debba negare l’esistenza di un grosso problema islamico che spinge in permanenza le minoranze dell’oriente, e in particolare i cristiani, a interrogarsi sul loro avvenire. E’ dunque perfettamente legittimo per un capo di una Chiesa orientale farsi eco di questo interrogativo. Salvo che il diritto di porre delle buone domande non giustifica mai il diritto di dare cattive risposte.
Ahimé, oggi in Libano, come altrove nella regione, sono numerosi i cristiani che si aggrappano alle risposte peggiori. E la tesi dell’alleanza delle minoranze sotto il coperchio di una dittatura tirannica che fa uso di menzogne ideologiche e politiche per mantenere la sua sopravvivenza ed egemonia è senza dubbio la peggiore fra esse.
Una dozzina di anni fa, alla “belle époque” della tutela siriana in Libano, un ministro libanese degli esteri conosciuto per le sua buone relazioni con Damasco, affermava senza complessi – in privato, certo – che per poter durare, il regime degli Assad non aveva altra scelta che quella di governare i sunniti con l’arabismo; cioè con il continuo rilancio del nazionalismo anti-israeliano. E cioè la cosiddetta “moumanaa” (“immunizzazione” rispetto all’influenza occidentale, n.d.t.).
Ora, una delle caratteristiche maggiori che si possono osservare nelle diverse espressioni della primavera araba in corso è precisamente la perdita di valore del mito di questa “moumanaa”. A poco a poco è messa a nudo, spogliata del verbalismo che si sforzava di nascondere la sua natura, fondamentalmente fittizia e menzognera. Che questa foglia di vite utilizzata dai teorici dell’alleanza delle minoranze cada non è che giusto, dopo tutto. Ma la vera domanda è altrove, è di ordine pratico: una volta che viene meno la “moumanaa”, dietro che cosa si nasconderanno le “minoranze alleate”?
Il mondo sunnita di apre ormai a noi, nella sua immensità e nelle sue contraddizionei, i suoi liberali, i suoi conservatori e i suoi salafiti. Tocca a noi saper trattare con esso in maniera diversa dallo stigmatizzarlo immediatamente quando constatiamo, spaventati, che non abbiamo più i mezzi per imbrigliarlo.
Ora, almeno per quanto concerne il Libano, bisogna essere completamente ciechi per non vedere che, da un certo numero di anni, c’è un miracolo sunnita libanese fino ad ora unico nel mondo arabo, rappresentato dal predominio massiccio di una corrente liberale nel seno della comunità. Che questa corrente sia condotta a camminare a tentoni, a commettere errori e persino a giocare all’apprendista stregone con i salafiti non autorizza nessuno, anche coloro che contestano – è il loro diritto – la sua politica economica e sociale, a dubitare della sua essenza liberale.
La democrazia cristiana ha conosciuto molti sbandamenti prima di diventare questo partito vistoso che si trova oggi alla testa di vari governi europei. Non è giunto il tempo in oriente di dare una possibilità alla democrazia sunnita?
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