Al Sabaileh: gli Accordi di Abramo e il secondo mandato di Trump
Per lo studioso giordano il piano che ha portato alla normalizzazione con Israele “sembra dormiente” ma resta una “base” valida. Il Medio Oriente di è una oggi realtà diversa rispetto al primo mandato del Tycoon. La politica “zero conflitti” perseguita da Riyadh privilegia l’ambito economico e apre al dialogo con Teheran. La centralità della questione palestinese per fermare i conflitti.
Milano (AsiaNews) - Gli Accordi di Abramo sottoscritti nel 2020 durante il primo mandato del presidente Usa eletto Donald Trump - che hanno portato alla normalizzazione dei rapporti fra Israele ed Emirati Arabi Uniti (Eau), Bahrain, Marocco e Sudan - oggi “non hanno l’appeal di quattro anni fa”. Un patto che “sembra quasi dormiente in questo momento”, ma che resta una “base” valida per rilanciare “la questione della pace regionale” ipotizzando “anche un cambio di nome”, per arrivare a districare il “nodo con l’Arabia Saudita”.
È quanto sottolinea ad AsiaNews il professore e analista geopolitico giordano Amer Al Sabaileh, esperto di questioni mediorientali, sicurezza internazionale e policy dei processi di pace in aree di crisi. Lo studioso, nato ad Amman e collaboratore di diverse testate internazionali fra cui The Jordan Times, riconosce il valore degli accordi sottoscritti nel primo quadriennio del Tycoon alla Casa Bianca, che potrebbero ancora “servire”. “Tuttavia - prosegue - il nome dovrebbe subire un cambiamento compatibile con le richieste” di Riyadh, che è “il Paese più grande e rappresenta il mondo islamico sunnita". Però “il concetto di coesistenza religiosa, avvicinamento fra le fedi” resta centrali e gli “Accordi” potrebbero essere sempre “il nodo principale su cui ricostruire un nuovo modello”.
Riyadh: zero conflitti
In queste settimane la diplomazia internazionale (e regionale) sta muovendo le pedine nel tentativo di allentare i numerosi focolai di guerra e tensione che incendiano il Medio oriente. In questa prospettiva si inserisce la visita - in un raro incontro di alto livello - del capo delle forze armate saudite, il generale Fayyad al-Ruwaili, a Teheran dove ha incontrato l’omologo iraniano gen. Mohammad Bagheri. Al centro lo sviluppo di una “diplomazia di difesa” e una “espansione della cooperazione bilaterale”, in una fase in cui le due potenze dell’islam sunnita e sciita stanno “rafforzando le relazioni” in un quadro ben diverso dalla prima vittoria di Trump. Nel 2016 Iran e Arabia Saudita interruppero i legami a seguito degli attacchi alle missioni diplomatiche di Riyadh nella Repubblica islamica, durante le proteste per l’esecuzione nel regno wahhabita del chierico sciita Nimr al-Nimr. Rapporti già segnati dai fronti contrapposti in Yemen, coi sauditi a sostenere il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e gli iraniani vicini ai ribelli Houthi.
“L’Arabia Saudita oggi ambisce a ricoprire un ruolo fondamentale e ambizioso, regionale e globale - sottolinea Al Sabaileh - basato su un potere economico che ruota attorno al concetto di stabilità, soprattutto dopo l’esperienza in Yemen. La guerra ha mostrato una facilità nel trasportare la crisi dentro i confini e mettere siti strategici come le aziende del petrolio sotto attacco. Riyadh intende perseguire l’obiettivo 'zero conflitti', non vuole rappresentarsi come minaccia” e in questa prospettiva “punta al riavvicinamento a Teheran” anche perché instabilità e scontri “contraddicono il piano Vision 2030” di Moḥammad bin Salman (Mbs). Aspira, prosegue l’esperto, a diventare “un hub regionale economico ed energetico, oltre all’ambito sportivo” con la Coppa del mondo di calcio nel 2034 e altri eventi di uguale importanza. In questa prospettiva “una guerra contro l’Iran avrebbe gravi conseguenze per le ambizioni saudite” e contrasterebbe con l’ideale di “mediazione nelle crisi”. Il primo passo “è ridare vita a una alleanza” regionale e nel mondo musulmano “per trovare una soluzione politica alla questione palestinese e, di conseguenza, alla guerra in Libano”.
2016-2024: Trump e il Medio oriente
Fra i leader di decine di nazioni arabe e musulmane riuniti nella capitale saudita, molti speculavano sul significato - e le scelte - di una seconda presidenza Trump e, a differenza dei timori che albergano in Europa, l’imprevedibilità potrebbe essere una forza di stabilità. Del resto Trump è visto con maggior favore in Arabia Saudita del presidente uscente Joe Biden e dell’amministrazione democratica, la cui influenza si è ridotta negli ultimi anni, con una Casa Bianca incapace di arginare le guerre di Israele a Gaza a in Libano. Resta un quadro di profonda incertezza e confusione, con voci di trattative e incontri riservati smentiti in un secondo momento dalle diplomazie dei Paesi coinvolti. Prova ne è il presunto incontro fra Elon Musk, braccio destro di Trump e da poco chiamato a co-dirigere il nuovo Dipartimento per l’efficienza del governo Usa: secondo il New York Times, che citava fonti anonime iraniane, il miliardario avrebbe avuto un faccia a faccia con Amir Saeid Iravani, ambasciatore di Teheran all’Onu, anche se la notizia non ha trovato conferme né dal versante iraniano, né dalla squadra di transizione del presidente eletto. A “negare categoricamente tale incontro” è stato il portavoce del ministero iraniano degli Esteri Esmaeil Baghaei che ha anche espresso “sorpresa” per la copertura data dai media americani.
La differenze fra il 2016 e il 2024 “ovviamente sono tante” sottolinea Amer Al Sabaileh, soprattutto “la questione della stabilità della regione”, così come le sfide “per i fronti aperti di conflitto” che rischiano di bloccare le mire economiche di Trump, dal mar Rosso al Mediterraneo. “Sono molti i problemi - prosegue - per questo il primo punto sarà la sicurezza, la presenza delle milizie, e i conflitti aperti in Libano, Siria e Iraq che minacciano qualsiasi corridoio economico futuro”. Vi è poi la “stabilizzazione a Gaza: intorno a questi temi - afferma lo studioso giordano - credo vi sarà un cambiamento fondamentale rispetto al precedente mandato” alla Casa Bianca, anche se “imporre una soluzione non sarà semplice e non potrà soddisfare tutti. Ciò richiede una politica molto più rigida, ma altrettanto determinata: questa potrà essere la sua sfida almeno per i primi due anni”. In passato Trump ha sfruttato le tensioni fra Riyadh e Teheran per avvicinare Israele ai Paesi del Golfo e introdurre non solo gli Accordi di Abramo, ma anche il versante “militare” spostando lo Stato ebraico “sotto l’ala di CentCom (United States Central Command), non più della divisione Europa: questo è stato un passo importantissimo”. Ora, avverte, il punto è di collegare la pace con Israele “al riconoscimento di uno Stato palestinese”.
Palestina e Iran: le vie della pace
Sulla questione hanno discusso lo scorso 11 novembre i Paesi arabi e musulmani, fissando una tabella comune che prevede un cessate il fuoco immediato e ribadisce la soluzione a due Stati - Israele e Palestina - per la pace nella regione. Nell’occasione Mohammad bin Salman ha parlato di “genocidio” in atto a Gaza e, in una nota congiunta a conclusione del vertice, i partecipanti hanno condannato l’aggressione che si sta allargando a Iraq, Siria e Iran dopo aver insanguinato la Striscia e il Paese dei cedri. “Il concetto di riconoscimento di uno Stato palestinese - afferma Al Sabaileh - è obbligatorio in un pacchetto di pace, anche per preparare la regione a futuri progetti economici” e gli israeliani “dovranno scendere a compromessi e concedere qualcosa, soprattutto con Trump”. “Una buona intenzione israeliana garantita dagli americani - aggiunge - aprirebbe il dialogo perché anche l’Arabia Saudita potrebbe, con grande pragmatismo, vedere l’opportunità di costruire la soluzione, non aspettare che venga delineata da altri”.
C'è poi il convitato di pietra, la Repubblica islamica che “va vista come vari Iran, non uno solo: c'è quello ostile - spiega lo studioso - della politica di aggressione regionale che ha formato milizie, gruppi attorno a Israele” dal Libano alla Siria, dall’Iraq allo Yemen. “Con questo Iran - afferma - non credo vi sarà alcuna tolleranza. Tuttavia, già dalla morte del presidente Ebrahim Raisi abbiamo visto emergere una linea pragmatica, che prova a trovare soluzioni ai problemi. Il conflitto che vediamo al di fuori del Paese è anche interno, almeno sul piano politico” e l’ascesa di Masoud Pezeshkian ha portato, almeno a parole, un tentativo di “riconciliazione con il mondo”. Anche perché queste ultime guerre hanno indebolito i Guardiani della rivoluzione e i gruppi a essi collegati, da Hamas a Hezbollah. Le sconfitte subite dai Pasdaran e dai loro affiliati, conclude l’esperto, potrebbero spingere “la politica iraniana a guardare più al proprio interno e a privilegiare lo sviluppo, con una diplomazia estera meno aggressiva che Trump potrebbe sfruttare”.
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