A un anno dalla strage dei monaci, continua la repressione in Myanmar
Yangoon (AsiaNews) – A dispetto delle ingenti misure di sicurezza predisposte dalla giunta militare birmana nella capitale e nelle principali città del Paese, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) celebra oggi il ventennale dalla fondazione. Il partito del premio Nobel Aung San Suu Kyi, istituito il 27 settembre 1988, festeggia il rilascio del giornalista Win Tin, liberato martedì scorso dopo 20 anni di prigionia, e ricorda gli oltre 2000 prigionieri politici ancora oggi richiusi nelle carceri del Myanmar.
Per reprime qualsiasi forma di dissenso i militari hanno rafforzato i controlli a Yangoon dislocando oltre 7mila agenti per le vie della città. Un provvedimento che fa seguito all’attentato avvenuto giovedì 25 settembre nella capitale, quando una bomba è esplosa ferendo almeno otto persone; gli agenti avrebbero anche disinnescato un secondo ordigno, piazzato nei pressi del municipio.
La giunta al potere ha inoltre predisposto cordoni di sicurezza, barricate e posti di blocco nelle aree sensibili, come le pagode di Sule e Shwedagon, teatro delle rivolte dello scorso anno. Una fonte anonima della polizia ha rivelato un piano che intende “colpire gli esponenti dell’opposizione”, verso i quali la polizia ha compito una serie di raid all’interno delle loro abitazioni, mentre chi è sorpreso senza documenti per le vie della città viene arrestato.
Sempre giovedì il capo della polizia birmana, Khin Yi, ha lanciato un avvertimento ai leader della Nld, invitandoli a ritirare un documento nel quale essi chiedono una “revisione della leadership al potere” che, a detta della giunta militare, avrebbe un contenuto “sovversivo”. Una fonte anonima conferma l’insofferenza del regime, che potrebbe sfociare in una “nuova e massiccia campagna di repressione” contro gli attivisti democratici.
L’anno scorso la dittatura al potere in Myanmar ha bloccato una serie di rivolte promosse dai monaci birmani e sostenute da attivisti per la democrazia; le prime, sporadiche proteste sono iniziate nell’agosto 2007 per l’aumento incontrollato nei prezzi del petrolio. Con il passare dei giorni oltre 100mila persone si sono unite alle manifestazioni, guidate dai monaci, fino a sfociare in quella che è stata ribattezzata la “rivoluzione zafferano”, repressa nel sangue dalle guardie della sicurezza. Il 26 settembre l’assalto deciso dai vertici militari ha lasciato sul campo 31 morti – stime ufficiali, ma i decessi potrebbero essere molti di più – fra i quali un giornalista giapponese ammazzato a colpi di pistola. Altre 74 persone risultano ancora oggi “ufficialmente scomparse”, oltre a migliaia di arresti fra monaci e attivisti.
Come gesto di “facciata” per placare il dissenso di una parte della comunità internazionale, nei giorni scorsi la giunta ha deciso di scarcerare 9002 detenuti, ma solo sette di questi erano in carcere per reati di opinione e uno di loro è stato nuovamente arrestato il giorno successivo al rilascio (l’esponente della Lega democratica U Win Htein).
Secondo un documento pubblicato da Human Rights Watch, negli ultimi due mesi 39 dissidenti sono stati fermati e 21 di loro condannati per reati politici. Ancora oggi la giunta militare rifiuta fondi e sussidi di Ong internazionali per le vittime del ciclone Nargis, temendo che una parziale apertura dei confini possa creare instabilità e minare il potere dittatoriale che essi hanno imposto al Paese negli ultimi 20 anni. Hrw denuncia arresti, violenze private e 39 omicidi perpetrati da esercito e polizia contro i dissidenti.
Resta infine aperta la vicenda che riguarda la più famosa attivista birmana, la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, costretta da anni agli arresti domiciliari. La “Signora”, come viene chiamata, il mese scorso ha più volte rifiutato cibo fresco che le viene recapitato settimanalmente dai compagni di partito, facendo temere uno sciopero della fame che avrebbe peggiorato le già fragili condizioni di salute. La giunta birmana negli ultimi giorni ha deciso di allentare la presa, concedendole la possibilità di leggere riviste internazionali in lingua inglese e ricevere le lettere di familiari e amici. Per la sua liberazione si è più volte pronunciata anche la moglie del Presidente Usa, Laura Bush, che di recente ha lanciato un appello nel quale ricorda “le violenze contro i monaci” e chiede il “rilascio di Aung San Suu Kyi”.