A Bangkok e in 18 province resta lo stato di emergenza
Il governo ha rimosso il provvedimento in sole cinque province, dove la situazione è “risolta”. La decisione contestata da uomini d’affari e attivisti per i diritti umani. In seguito alle leggi speciali arrestati circa 400 oppositori. International Crisis Group chiede elezioni libere e pacifiche.
Bangkok (AsiaNews/Agenzie) – Il governo thai ha prorogato lo stato di emergenza – decretato il 7 aprile scorso – in 18 province e nell’area metropolitana della capitale, Bangkok. La decisione presa oggi dall’esecutivo "intende garantire pace e stabilità" nel Paese, teatro fra marzo e maggio di una rivolta delle “camicie rosse” repressa nel sangue da esercito e polizia. Tuttavia, la scelta del governo è osteggiata da uomini d’affari e attivisti per i diritti umani, che chiedono il ritiro delle “leggi speciali”, le quali hanno minato la fiducia di investitori esteri e turisti verso la Thailandia.
Lo stato di emergenza ha riguardato sinora 23 province (su 76) del Paese, cui si aggiunge la capitale Bangkok. Il governo guidato dal premier Abhisit Vejjajiva ha deciso di rimuovere le leggi speciali in cinque province – Si Sa Ket, Kalasin, Nan, Nakhon Sawan e Nakhon Pathos – perché, secondo quanto stabilito dal Consiglio per la sicurezza nazionale (Nsc), la situazione è “risolta”. Non si esclude una possibile reintroduzione del decreto se il movimento di opposizione United Front for Democracy against Dictatorship (UDD), vicino all’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, riprenderà le attività di protesta contro l’esecutivo.
L’allentamento parziale delle leggi speciali scontenta una parte dell’esecutivo, soprattutto nell’ala vicina al vice-premier Suthep Thaugsuban, che chiedeva l’estensione in tutte e 24 le province. Una posizione condivisa dal Cres – il Centro per la risoluzione delle situazioni di crisi e di emergenza – costituito in maggioranza da militari e poliziotti, fautore della linea dura verso le “camicie rosse”. In un’intervista alla Bbc, il premier Abhisit ha spiegato la politica della “rimozione graduale” dello stato di emergenza, partendo dalle aree che si considerano ormai sotto controllo.
Iniziata verso la metà di marzo, la protesta dei manifestanti anti-governativi è durata circa due mesi e ha paralizzato il distretto economico e finanziario della capitale. In seguito alle pressioni dell’opinione pubblica e alle accuse di incapacità nel gestire la rivolta, l’esecutivo ha infine autorizzato l’intervento dell’esercito, che ha innescato violenti scontri con la frangia più radicale del movimento. La guerriglia urbana ha causato circa 90 morti e quasi 2mila feriti, cui si sommano centinaia (alcune fonti dicono 400) di arresti fra gli oppositori. Molti fermi sono avvenuti senza un mandato specifico, in base alle leggi speciali che consentono l’arresto e la detenzione fino a 30 giorni senza la formulazione di capi di accusa.
La situazione politica in Thailandia continua a preoccupare uomini d’affari e attivisti per i diritti umani. Scontri, rivolte di piazza e instabilità hanno spinto molti investitori ad abbandonare il Paese e anche nel settore del turismo continua il momento critico. A nulla sono valsi sinora gli appelli di associazioni internazionali, che chiedono il completo ritorno alla normalità. In un recente rapporto, International Crisis Group (Icg) ha chiesto la fine dello stato di emergenza, avvertendo che le “legittime frustrazioni” dei manifestanti anti-governativi – se represse – possono trasformarsi in “azioni violente e illegali”.
In un articolo pubblicato dal Bangkok Post Jim Della-Giacoma, direttore per il Sud-est asiatico di Icg, sottolinea quattro punti essenziali: la rimozione in tutte e 24 le province della legge di emergenza; la piena restituzione dei diritti politici alle “camicie rosse”; la fine della demonizzazione delle opposizioni; indagini oneste e accurate sulle violenze di aprile e maggio, per fare piena luce sulla vicenda e individuare i responsabili. “Alla fine, per iniziare un nuovo capitolo e costruire un nuovo consenso a livello politico – conclude l’attivista – bisogna creare il prima possibile le condizioni per lo svolgimento di elezioni pacifiche”.
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