Svalutazione dello yen, riequilibrio valutario e non ricatto monetario
Milano (AsiaNews) - La svalutazione dello yen conseguente alle decisioni Banca del Giappone (BdG), la banca centrale nipponica, è una guerra monetaria. Lo scrivono alcuni - parecchi, in verità - economisti cinesi. Si tratta di un "ricatto" e invitano i cinesi a lanciare il contrattacco, a vendicarsi, facendo altrettanto. Secondo costoro, la Banca Cinese del Popolo, BCP, la banca centrale della Cina, in questa guerra valutaria deve difendersi ed indebolire lo yuan renminbi, la valuta del regime cinese capital-comunista.
A parlare di guerre monetarie ad AsiaNews siamo stati, già diversi anni fa, tra i primissimi e lo abbiamo ripetuto anche di recente. Se oggi dobbiamo ripeterci non è per stanchezza di analisi e mancanza di idee, ma perché questa è oggi la scoperta degli analisti economici ospitati con sussiego dalle fonti "ufficiali".
È il caso, ad esempio, tra gli altri, del prof. Li Daokui della Tsinghua University o di Liu Ligang della banca australiana neozelandese ANZ. In riferimento è a proposito della politica monetaria della BdG e della dichiarata intenzione di raddoppiare la base monetaria per ridare fiato allo sviluppo del Sol Levante dopo ben due decenni di stagnazione economica. Liu, che in passato è stato consigliere della stessa BCP, ha letteralmente dichiarato, senza mezzi termini, che la politica della BdG è un "ricatto monetario". Altri, come Chang Jian, un economista cinese, analista per la banca inglese Barclays, la prendono un po' alla larga. Chang, criticando la BdG, predice che l'aggressiva politica della BdG volta a stimolare una crescita dell'emissione di moneta da parte del sistema bancario - facilitando la concessione dei crediti - non riuscirà a rilanciare l'economia nipponica, ma creerà problemi alle esportazioni dei Paesi dell'area, alla Corea del Sud, ancor più che alla Cina. Meno diretto, ma forse più superficialmente convincente, anche Chang ribadisce, insomma, lo stesso concetto e sentenzia che la politica monetaria giapponese oltre che pericolosa è anche inefficace.
Tanta bella e dotta indignazione fa però sorgere subito qualche dubbio.
In primo luogo vediamo dunque di che cosa si tratta. Con l'avvento del nuovo primo ministro Abe l'obbiettivo del Giappone è di uscire dalla depressione ventennale mediante un'inflazione "programmata" del 2% annuo. Sulla base di un piano annunciato giovedì della scorsa settimana la banca centrale giapponese ha annunciato che raddoppierà la base monetaria, il circolante monetario, portandolo per marzo 2015 a 270mila miliardi di yen, mediante l'acquisto mensile di 7.500 miliardi di obbligazioni del debito pubblico nipponico. Haruhiko Kuroda, il nuovo governatore della BdG, ha infatti dichiarato che farà tutto quanto necessario per far uscire il Paese dalla stagnazione deflazionistica. La sua politica non è di fatto differente da quella della banca centrale americana, la Federal Reserve, di Mario Draghi governatore della BCE, quella che è di fatto la banca centrale dei Paesi dell'euro, della Banca d'Inghilterra. È la stessa politica, già da qualche anno, della Banca Nazionale Svizzera, BNS, in un Paese in cui la Costituzione Federale, articolo 99, obbliga la banca centrale a detenere una riserva valutaria pari al totale della liquidità emessa, cioè al circolante monetario. Nel settembre 2011, infatti, la BNS, per contenere l'afflusso di capitali esteri, ed il conseguente rafforzamento del franco rispetto all'euro, affermò che avrebbe emesso moneta nazionale all'infinito pur di difendere il tasso di cambio di 1,20 per euro. Anche la mitica riserva monetaria svizzera - nel 1961 la copertura aurea era pari al 145 % dei franchi emessi e fino al 1/1/2000 era possibile redimere in oro il controvalore delle banconote in franchi - è dunque ora anch'essa composta sempre più in gran parte da cartamoneta e da attivi finanziari.
È vero, lo yen giapponese si è indebolito di circa il trenta percento da quando ha preso avvio il nuovo corso di politica monetaria nipponico, ma l'obbiettivo dichiarato dalla BdG è identico a quello fissato dalla Fed americana, il 2% d'inflazione.
Per 20 anni la Cina è cresciuta sulla sottovalutazione del cambio
Una guerra valutaria è certo in atto, dunque, ma l'indignazione degli analisti citati è risibile. Dov'erano questi stessi critici quando per vent'anni, dal 1994, la Cina popolare ha mantenuto un livello di cambio sottovalutato del 45% rispetto alla parità di Potere di acquisto, la PPA, come più volte da noi documentato su questo sito? Ipocriti, verrebbe da dire, mutuando dal linguaggio evangelico, o servi del regime, prendendo invece dal linguaggio marxista. Sulla sottovalutazione del cambio, stabilita per decreto, a partire dal 1994, dai funzionari del Partito comunista cinese e non su una maggiore efficienza, la Cina ha fondato per ben due decenni la sua storia di "successi" industriali. Il costo è stato alto e non solo per la devastazione ambientale. Da un alto, per il proletariato di centinaia di milioni di lavoratori migranti cinesi - portati a volte sull'orlo del suicidio - il costo è stato uno sfruttamento schiavistico e per le popolazioni rurali, nell'euforia generale, uno stato di abbandono. Dall'altro lato il resto del modo è sprofondato nella disoccupazione e nella delocalizzazione delle imprese, nel consumismo e nella bolla finanziaria. È stato per i Paesi occidentali un periodo di narcosi collettiva simile, come per nemesi storica, a quella introdotta in Cina dagli inglesi con le guerre dell'oppio, a metà del 1800.
Oggi i Paesi di più antica industrializzazione, il Giappone, e con esso gli USA, e l'Europa, chiariscono ai dirigenti cinesi che non possono più concedere a chi, come la Cina, se ne è già tanto avvantaggiato, spazi ulteriori per una propria completa abdicazione industriale.
Nel 1994 forse qualcuno chiuse un occhio (o meglio tutt'e due) per favorire una transizione "morbida" dell'economia cinese da un'economia stalinista ad un'economia, diciamo così, di (pseudo) mercato, con l'aiutino del tasso di cambio. Erano passati appena pochi anni dalla repressione cruenta operata dal regime dei moti di piazza Tienanmen nel 1989. Era evidente che a differenza dell'Unione Sovietica il regime comunista cinese non avrebbe passato la mano senza spargere sangue, forse molto sangue, forse ricordando al mondo di avere dei missili a lunga gittata e con ogive nucleari. Fu un ricatto del regime cinese? Fu sapiente lungimiranza da parte dei Paesi occidentali far finta di non accorgersi del trucco valutario ed accogliere la Cina nel mondo globalizzato del WTO in cui venivano aboliti tutti i residui dazi doganali mentre in essa vigeva il protezionismo valutario? Lo dicano gli storici, lo giudichino i lettori. Certo è che quando in molti settore industriali chiave quasi la metà della produzione mondiale, ed in certi casi anche di più, è ormai localizzata in Cina è evidente che non esistono ulteriori spazi per crescere per tale strada. Il modello della crescita economica trainata dalle esportazioni - in Cina come in altri Paesi asiatici come la Corea del Sud, che anch'essa ha a lungo mantenuto una valuta artificialmente sottovalutata - è ormai di fronte ad limite di fatto. Certo è anche che questi ultimi anni, con il fallimento dello "stimolo" economico interno, hanno dimostrato che la Cina è incapace di crescere autonomamente sia distribuendo più equamente tra tutta la sua popolazione i proventi tratti dalle esportazioni, sia producendo innovazione autonomamente, senza scopiazzare cioè la costosa ricerca altrui. Con la crisi nei Paesi occidentali, infatti, le imprese hanno dovuto tagliare in primo luogo proprio la ricerca perché non dà risultati nel breve, brevissimo periodo, quello che conta nell'immediato per la sopravvivenza. Priva di questa fonte occulta e "gratuita" di innovazione e senza l'aiutino valutario, la Cina rischia davvero che la sua prodigiosa macchina di "successi" economici si blocchi e che il suo intero sistema sociale si schianti. In questo scenario, tensioni internazionali altrimenti inspiegabili come quella per le disabitate e per ora insignificanti isole Senkaku / Diaoyu o come le minacce missilistiche nucleari della Corea del Nord (da sempre sostenuta sottobanco dalla Cina) assumono sempre più chiaramente un loro significato di avvertimento, minaccia, ritorsione. Ricatto militare e nucleare sono però forse l'espressione più appropriata.
Ad AsiaNews siamo stati sempre molto critici rispetto all'allegro gonfiare a briglia sciolta di attivi finanziari l'economia mondiale, da parte della Fed, della BCE e della BdG. L'esito finale sarà una devastazione economica e finanziaria senza precedenti, è scontato. Non possiamo però nemmeno accettare l'ipocrisia di chi oggi definisce "ricatto monetario" quello che non è altro che un parziale riequilibrio e bilanciamento valutario. Ancor meno possiamo essere d'accordo che ad un presunto "ricatto monetario" qualcuno pensi di rispondere con il ricatto militare o peggio nucleare
Per la verità le riserve d'oro svizzere rimangono cospicue, con la copertura aurea che nel luglio 2007 era pari a circa l'ottanta percento. Inoltre, una recente iniziativa legislativa popolare elvetica mira ad imporre un obbligo di legge tale per cui almeno il venti percento delle riserve sia costituito da oro. Nel 2000 la Svizzera fu sottoposta da forti pressioni internazionali, ispirate da Greenspan, a vendere - anche mediante una campagna mediatica un po' dubbia - una discreta parte del proprio oro. L'intento era di demonetizzare l'oro.
10/04/2008
15/06/2022 12:16