Rivolte per il caro prezzi: il frutto della politica della Fed
Rivolte contro il caro prezzi dei generi di prima necessità sono avvenute anche in molti altri Paesi come ad esempio in Laos, Oman e Giordania. Per altri il malcontento popolare è dovuto agl’incrementi dei combustibili. Notizie simili provengono non solo dall’Asia, ma da un po’ tutti i continenti. Vi sono stati ad esempio blocchi stradali in Cile, un Paese in cui a causa della sua conformazione geografica, una lingua di terra molto stretta ma molto estesa da Nord a Sud, è determinante il costo del trasporto e quindi dei carburanti. Proteste e blocchi stradali vi sono stati anche in Bolivia, dove il 26 dicembre la benzina è aumentata dell’80 %.
In Nord Africa, per l’aumento del prezzo della semola di grano duro, la base del principale piatto della zona, il cous-cous, ci sono stati moti di piazza in Algeria e forte malcontento in Marocco. In Tunisia il presidente è scappato (portandosi via 1,5 tonnellate d’oro), il governo si è dimesso e sembra che l’insurrezione inizi a prendere le forme di una rivoluzione popolare. Un simile sviluppo si teme anche in Egitto, tanto che le autorità doganali hanno intercettato e bloccato negli aeroporti 59 spedizioni d’oro [3] effettuate da chi, avendo perso fiducia nel Paese, era evidentemente disposto a rischiare la confisca e l’accusa di contrabbando.
Da moti ed incidenti di piazza è toccata anche l’Europa. A parte le vicende di guerriglia urbana nei mesi scorsi legate ai problemi del debito greco, portoghese, spagnolo ed irlandese, a parte le manifestazioni degli studenti inglesi, in questi ultimi giorni ci sono stati tre morti nei moti di piazza in Albania. In generale, in tutto l’Est europeo vi è una situazione molto pesante, come ad esempio in Estonia o in Moldavia, dove la benzina ed i generi di prima necessità hanno avuto forti aumenti di prezzo.
La situazione non sembra migliore nei Paesi occidentali, anche se i dati sono apparentemente contraddittori. Infatti, secondo quanto dichiarato dal Ministero dell’Agricoltura, negli Usa l’inflazione ed in particolare quella dei prodotti agricoli e dei beni di largo consumo o di prima necessità è ai minimi dal 1992[4]; i dati ufficiali nei Paesi europei sono simili. In realtà chi va regolarmente a far la spesa del livello generale dei prezzi ha un’altra impressione[5]: per costoro l’inflazione dei prodotti alimentari ed agricoli non sembra più solo una vaga ipotesi teorica. Nei Paesi occidentali, infatti l’inflazione ha solo assunto forme “astute”: ad esempio, le catene della grande distribuzione ed in generale i produttori, laddove possibile non hanno aumentato di molto i prezzi, ma hanno diminuito invece o la qualità o la quantità delle confezioni (aumentando le verdure o il condimento contenuti nelle scatolette di tonno o di altri generi, per esempio). La Corea del Nord, infine, ha reagito al deficit alimentare a suo modo: sparando cannonate, come suo solito, data la carestia endemica provocata dal regime. Questa volta, però, per sottolineare, l’urgenza e la gravità della propria situazione di carenza alimentare, non si è più tuttavia limitata a sparare a salve o a lanciare missili in mare, ma ha colpito dei centri abitati provocando morti tra la popolazione civile.
Singolarmente prese, tutti questi eventi sembrano vicende ed insorgenze causate da contingenze locali. Non è però così. Certo, è vero che in base ai dati della Fao, l’organizzazione mondiale dell’agricoltura, l’incremento dei prezzi delle derrate agricole, ed in particolare dei cereali, lo scorso anno è stato di circa il 40-60 %. Il rialzo dei generi di prima necessità che ha colpito questo e quel Paese è quindi davvero un fenomeno mondiale. La causa però non è dovuta ad un deficit della produzione o ad eventi climatici: la siccità che ha colpito le colture di grano in Russia ed in Kazakistan o le inondazioni in Canada e nell’Europa del Nord, in Australia (quella umanamente devastante del Pakistan ha avuto un impatto minore in termini di incidenza sulla produzione agricola mondiale). Lo stesso se ne deve dire delle gelate in Argentina che hanno colpito il mais, la soia, il grano o la perdita del raccolto delle patate sempre in Russia e di altri casi. Le sommosse popolari non si possono imputare alla carestia e di certo non nelle forme in cui l’umanità l’ha conosciuta per migliaia di anni. La produzione di cereali[6] è diminuita lo scorso anno circa del 2 % e questa diminuzione proprio non spiega gli incrementi di prezzo registratisi. In primo luogo è evidente la sproporzione tra gli incrementi di prezzo ed il decremento della produzione mondiale. In secondo luogo è facile verificare come si è potuto facilmente ovviare al calo produttivo contingente facendo ricorso alle scorte, cioè utilizzando le eccedenze rispetto ai consumi accumulatesi negli stoccaggi grazie ai raccolti record ottenuti nei precedenti anni. Dei dati Fao è anche interessante notare la forte progressione dei prezzi negli ultimi sei-sette anni: in certi casi rispetto al 2002-2004 l’incremento dei prezzi è stato quasi del 400 %, nonostante gli incrementi della produzione.
L’inflazione dei prezzi all’origine non ha dunque cause tecniche o climatiche, ma finanziarie. Nasce cioè dall’enorme liquidità immessa sul mercato dalle banche centrali, ed in particolare dalla Federal Reserve americana, come da anni ormai AsiaNews è andata documentando. Da molto, infatti, i prezzi delle materie prime non riflettono più - o lo fanno solo in maniera molto marginale - il rapporto tra domanda ed offerta dei beni fisici contrattati. Il fattore di gran lunga determinante per i prezzi di quasi tutte le materie prime sono gli acquisti e le vendite degli operatori finanziari in grado di spostare in tempi brevissimi ingenti somme dal mercato dei titoli di Stato, alle obbligazioni, alle azioni o alle cosiddette merci. Per chi è inserito nei circuiti giusti i profitti sono enormi ed i rischi relativamente bassi: potendo disporre di enormi risorse, ai fini pratici quasi illimitate, è facile conseguire i risultati voluti. Si tratta di una sistematica distorsione dei valori di mercato, attribuibile non esclusivamente, ma certo in maniera non del tutto trascurabile al “ Plunge Protection Team” (traducendo letteralmente Squadra Protezione Tonfi, ovviamente finanziari). È un termine giornalistico statunitense molto colorito che si riferisce ad un organismo di cui si parla poco ma che per la sua stessa composizione è in grado di esercitare un notevole influsso sui mercati. Il nome ufficiale di tale organismo è “Gruppo presidenziale di lavoro per i mercati finanziari” (in inglese President's Working Group on Financial Markets). Fu costituito nel 1988 ed è formato dal Ministro del Tesoro, il governatore della Fed, il presidente della Sec (l’equivalente americano della Consob) e dal presidente della Commissione sulle Borse dei contratti a termine – i “future” – e delle Merci. Ad esso va ad aggiungersi l’operato che un tempo era straordinario ma ora è di fatto diventato quotidiano del Fomc, il comitato della Federal Reserve Bank di New York per le operazioni di mercato aperto. Al seguito di questi gruppi istituzionali si muove un ristretto numero di operatori, grandi banche d’affari - come Goldman Sachs e JP Morgan ad esempio - e grandi fondi d’investimento speculativi, i cosiddetti hedge fund. Gli interscambi, anche di ruoli, tra i gruppi istituzionali e questi grandi gruppi privati sono ovviamente all’ordine del giorno e non c’è da meravigliarsi se ad esempio un pugno di gestori di tali fondi speculativi riesce a percepire compensi annuali che in alcuni casi hanno superato il miliardo di dollari, solo come emolumenti.
Il lato piacevole non è dato tanto dalla potenza di “fuoco” in mano ad un gruppo molto ristretto di persone (si pensi che il valore dei “derivati” finanziari è pari a circa 15 volte il valore del Pil mondiale, del valore cioè di tutte le merci ed i servizi prodotti annualmente nel mondo). Il dato più confortante per chi è inserito nel meccanismo è la certezza che il rischio di pagare fino in fondo per i propri errori è davvero minimo. Valga un semplice esempio.
In un precedente articolo[7] avevamo notato come nel bilancio (diciamo così per brevità) della Federal Reserve (che di fatto è la Banca Centrale degli Usa, ma non la può chiamare così perché la Costituzione Americana vieta l’istituzione di una banca centrale), i “Titoli con attivo sottostante” (MBS secondo l’acronimo inglese) costituivano al 3 novembre 2010 il 44,91% dell’attivo di bilancio della suddetta Fed. Avevamo anche osservato che, da un punto di vista giuridico, tali MBS sono di fatto privi di valore. La conseguenza sarebbe ovvia: il rischio che la Fed (un organismo di diritto privato istituito in base alla legge del 23/12/1913 promulgata da Woodrow Wilson) possa divenire insolvente e fare bancarotta a causa del buco derivato da tali titoli sarebbe in teoria elevato. Da pochi giorni non è però più così. Ci informa infatti l’agenzia Reuters[8] che, la Fed, quatta quatta, senza avvertire nessuno ha autonomamente cambiato le proprie regole contabili. La ragione è che da circa il 6 gennaio di quest’anno le obbligazioni detenute dalla Fed, tra cui i suddetti MBS, non sono più un rischio a carico della Fed, ma gravano come responsabilità del Ministero del Tesoro americano. Insomma, in base a tali nuove regole, la Fed non corre più il rischio, anche solo teorico, di fare fallimento. Quando sarà chiaro a tutti che le obbligazioni comprate dalle banche commerciali per evitarne il tracollo sono prive di valore, la responsabilità sarà del Tesoro americano. In questa maniera, alla faccia della democrazia ed all’insaputa praticamente di tutti, i rischi d’insolvenza sono stati trasferiti a carico dei cittadini statunitensi, attuali e delle future generazioni, vecchi e lattanti compresi. Ovviamente, le ricche commissioni a suo tempo percepite dalle banche e dalle grandi finanziarie e finite negli emolumenti percepiti dai dirigenti, non corrono più nemmeno il rischio remotissimo della revocatoria. Pedro Nicolaci da Costa, l’articolista della Reuters, commenta: potessero autonomamente cambiare le regole contabili anche le famiglie americane come fa la Fed! Potessero fare così le famiglie di Cina ed India per le quali circa il 40 % dei propri magri bilanci vanno per la spesa alimentare, commentiamo noi ad AsiaNews!
Il risultato di tutto ciò è che i divari economici tra le élite ed il resto del mondo si accrescono sempre più ed aumentano i rischi di insurrezioni dappertutto nel mondo, ma questo non sembra preoccupare granché le élite che ad un conflitto di grandi dimensioni da tempo vanno preparandosi.
Infine s’impone un’ultima notazione: quei dirigenti politici che sembra non vogliano adeguarsi ai gusti ed ai modi delle potenti élite finanziarie vanno eliminati.
[1]Vedi tra i numerosi articoli ad esemp.
a) AsiaNews, Wei Jingsheng, 30/12/2010, L’inflazione in Cina causerà il collasso del regime
b) AsiaNews, 20/01/2011, Teme l’inflazione l’economia cinese in crescita
[2] Vedi tra i numerosi articoli ad esemp.
a) AsiaNews, Nirmala Carvalho, 17/01/2011, In India sale il prezzo della benzina: i poveri soffrono, i ricchi aumentano
b) AsiaNews, Nirmala Carvalho, 20/01/2011, Il caro cipolle mette in crisi la crescita indiana e può far cadere il governo
[4] Il Ministero dell’Agricoltura americano, in una nota riportata dalla Reuters lo scorso 25 agosto, l’inflazione dei prodotti alimentari è la più bassa dal 1992, vedi Reuters, 25/8/2010, Food price inflation lowest since 1992:USDA
[5]Vedi CS Monitor, 8/11/2010, Food price inflation isn’t theoretical anymore
[6] Vedi: Fao. Food Outlook, novembre 2010. Food Outlook Global Market Analysis
[7] Vedi AsiaNews, 18/11/2010, MdO, La guerra delle valute e la scomparsa della Fed
[8] Vedi Reuters,21/1/2011, Pedro Nicolaci da Costa , Accounting tweak could save Fed from losses