04/12/2007, 00.00
MYANMAR
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Anche a Mandalay la giunta impone la chiusura dei monasteri

Secondo fonti di AsiaNews l'iniziativa mira ad isolare le comunità che si sono schierate a favore delle proteste di settembre. Intanto dalla giunta militare solo segnali di chiusura: al processo per la stesura della nuova Costituzione non saranno ammesse “figure dell’opposizione”. Campagna mediatica contro il partito della Suu Kyi, che “voleva gettare il Paese nel caos”.

Yangon (AsiaNews) - Dopo la chiusura del famoso monastero Maggin, vicino Yangon, le autorità birmane procedono allo “spostamento” da Mandalay dei monasteri buddisti, che si sono schierati a favore delle dimostrazioni anti-governative di settembre. Lo denunciano fonti di AsiaNews sul luogo. Nei fatti e a parole i generali continuano così a dimostrare le loro reali intenzioni. Ieri il capo del Comitato per l’informazione della giunta, gen. Kyaw Hsan(nella foto), ha dichiarato che il governo non aprirà il processo per la stesura della nuova Costituzione “a gruppi o figure dell’opposizione”. La decisione è l’opposto di quanto la giunta aveva promesso ai governi mondiali, compresa la Cina, che premono per riconciliazione nazionale. Il riferimento implicito è alla temuta Lega nazionale per la democrazia (Lnd) guidata dal Nobel Aung San Suu Kyi. I militari governano la ex Birmania dal colpo di Stato del 1962; nel 1990 si tennero elezioni libere ma, davanti alla travolgente vittoria della Lnd, i militari annullarono i risultati della consultazione e posero Suu Kyi agli arresti.

Per screditare il partito della “Signora” è stata montata una nuova campagna mediatica sugli organi di stampa del regime. Fonti di AsiaNews nella ex capitale Yangon riferiscono di articoli e dichiarazioni ufficiali in cui si avverte che l’intervento contro i monaci è servito a salvare il Paese dal caos, in cui volevano gettarlo le potenze occidentali con la complicità della Lnd.

Lo stesso Than Shwe ha ribadito oggi i piani del regime di Naypydaw. Il generalissimo ha annunciato che il governo vuole trasformare la nazione in un “Paese pacifico, moderno e di democrazia fiorente e disciplinata”. Ha poi lanciato un nuovo slogan: “Realizzare la road-map dello Stato in sette punti”. I sette punti per ripristinare la democrazia, sono stati fissati dal governo nel 2003 e comprendono: la riunione della Convenzione nazionale per l'elaborazione di una costituzione  (appena chiusa a settembre, dopo 4 anni di lavori e boicottata dalla Lnd); un referendum popolare sulla nuova Carta; elezioni “libere e giuste” e l’avvento di un "governo di membri eletti". Per nessuno di questi è fissata una scadenza temporale. Intervistato da The Irrawaddy, Thakin Chan Tun, ex ambasciatore birmano in Cina, si dice convinto che la giunta procede con la “sua interpretazione” della road-map. “Non ci sono speranze di dialogo, i militari non hanno nessuna intenzione di perseguire la riconciliazione nazionale e gli incontri tra il ministro U Aung Kyi e la  Suu Kyi sono solo teatro”.

Anche l’annuncio della scarcerazione di 8500 detenuti da novembre ad oggi non desta speranze. Tra loro, appena 10 sono prigionieri politici e gli altri sono solo semplici criminali. Proseguono, invece, gli arresti e i soprusi. A Mandalay le autorità stanno imponendo la chiusura dei monasteri buddisti, che hanno sostenuto le proteste di settembre contro il regime. L’intenzione è trasferirli in aree più remote per isolarli. Ma ora i bonzi – denunciano i fedeli buddisti – sono preoccupati e temono di poter rimanere senza una casa.

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