Yudhoyono "cancella" le lotte anti-cinesi e ripristina i termini aboliti da Suharto
Jakarta (AsiaNews) - Una mossa dettata dall'opportunità politica e dalla ricerca del consenso; una decisione che, a distanza di tempo, restituisce dignità e rispetto a una minoranza consistente del Paese; un cambiamento che non incide nella vita quotidiana e che non rappresenta una svolta epocale in tema di pari diritti e opportunità. Giudizi controversi accompagnano la scelta di Susilo Bambang Yudhoyono il quale, attraverso il decreto presidenziale 12/2014, ha deciso di modificare l'appellativo con il quale vengono identificati i nativi di etnia cinese: Tionghoa in sostituzione di "cinesi" e Tiongkok per "Repubblica popolare cinese". Il capo di Stato ha così recuperato una definizione in vigore prima dell'ascesa al potere del presidente Suharto, che durante il suo mandato ha condotto una lotta durissima contro il Partito comunista indonesiano (Pki) e i suoi affiliati. Risale al 1967, infatti, la legge presidenziale (numero 14) che mette al bando qualsiasi elemento legato alla cultura e alla tradizione cinese.
In Indonesia, nazione musulmana più popolosa al mondo, qualsiasi legame con il comunismo o l'appartenenza (in passato) al defunto Pki è oggetto di controversia ancora oggi a distanza di decenni. Il tentativo di colpo di Stato promosso il 30 settembre 1965 da parte di gruppi deviati filo-comunisti dei servizi segreti, con l'obiettivo di deporre il presidente Sukarno, ha lasciato un segno indelebile nella storia della nazione.
La successiva ascesa al potere di Suharto, che fra il 1967 e il 1998 ha guidato il Paese col pugno di ferro, ha determinato una caccia ai membri del partito e ai suoi simpatizzanti. Molti degli affiliati sono stati spediti in esilio nell'isola-carcere di Buru (Molucche), senza processo o difesa. Negli anni di regime sono state uccise o scomparse almeno due milioni di persone e, ancora oggi, perdura un clima di diffidenza, ostilità e persecuzione.
Ai tempi di Sukarno il partito comunista poteva contare almeno cinque milioni di membri e uno stretto legame sia con la Cina, che con l'allora Unione Sovietica. Il primo presidente indonesiano aveva inoltre lanciato l'idea di un asse fra "Jakarta-Pechino-Pyongyang", in un'ottica di lotta all'imperialismo britannico e statunitense nel Sud-est asiatico. Il rovesciamento politico e l'ascesa di Suharto hanno determinato il riavvicinamento all'Occidente, la caccia ai presunti "simpatizzanti" comunisti e la messa al bando di qualsiasi elemento della cultura cinese. Un ostracismo durato fino agli anni duemila, quando il presidente riformista Abdurrahman Wahid "Gus Dur" ha reintrodotto il capodanno cinese e rilanciato il concetto di nazione plurale e multiculturale.
Oggi Yudhoyono, in vista delle elezioni legislative del 9 aprile e del voto per le presidenziali a luglio, cancella le definizioni discriminanti "perché non rispettano i dettami costituzionali", sostituendole con Tionghoa e Tiongkok, più rispettosi e inclusivi nei confronti della minoranza. Tuttavia, emergono reazioni contrastanti in riferimento alla scelta del presidente: per il 60enne uomo d'affari cattolico Hendrawan, originario di North Jakarta, "il motivo è di ragione prettamente politica, per guadagnare consensi nell'elettorato di etnia cinese" in vista del doppio voto in programma nel 2014. Per la 55enne Ancella Lilly, laureata in Letteratura cinese, vi sono anche ragioni di natura anagrafica. "Per quanti hanno meno di 60 anni - spiega - non vi sono particolari differenze fra 'cinese' e 'Tionghoa'. Ma per chi ha più di 60 anni e ha sofferto il regime di Suharto, queste due parole racchiudono un significato ben diverso". Come emerge dalle parole di Michael Utama Purnama, businessman cattolico e attivista di primo piano, da tempo in lotta nella difesa dei diritti dei discendenti di etnia cinese. "La nostra lunga battaglia per il ripristino dei due termini ha avuto successo... Deo gratias!".
18/08/2022 12:42
02/09/2021 11:50