09/04/2021, 09.53
TURCHIA - ITALIA
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Vicario d’Anatolia: la condanna di padre Aho ‘sorprendente: manca il reato’

Mons. Bizzeti ricorda che “è una tradizione millenaria dare pane e acqua a chi bussa alla porta” di un convento. Il religioso era convinto della propria innocenza, tanto da non volere un avvocato. Si attendono “le motivazioni della sentenza” ed è “prematuro” affermare che vi siano questioni politiche o di fede. 

Roma (AsiaNews) - La condanna a 25 mesi inflitta al monaco assiro Sefer Bileçen, ritenuto colpevole di aver fornito aiuto a una organizzazione terroristica, è “molto sorprendente”; sin da novembre, infatti, si era pensato ad una assoluzione “perché il fatto non sussiste”. È quanto sottolinea ad AsiaNews mons. Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell’Anatolia e presidente della Caritas nazionale, commentando la sentenza del 7 aprile scorso contro il religioso meglio noto con il soprannome di “padre Aho”. “Non vi era nessuna ipotesi concreta di reato - prosegue il prelato - anche perché è una tradizione millenaria dei monasteri dare pane e acqua a chi bussa alla porta”. 

Nei giorni scorsi ha sollevato profondo sconcerto e stupore la condanna del religioso. La sua colpa, se colpa si può definire, è aver dato del cibo ad alcune persone che si erano presentate alle porte del monastero. E che, secondo il pubblico ministero dell’Alta corte penale di Mardin, sarebbero stati esponenti del movimento filo-curdo Pkk. Custode dell’antica istituzione siriaco-ortodossa di Mor Yakup, abuna Aho si è sempre dichiarato innocente fin dall’arresto il 9 gennaio 2020 (poi rilasciato quattro giorni dopo). Secondo l’accusa è colpevole di “appartenenza a una organizzazione terroristica”, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) fuorilegge per Ankara. 

“Per i monasteri cristiani - racconta mons. Bizzeti - è una tradizione millenaria quella di garantire del cibo e una bevanda a chi bussa alle porte, senza fare distinzioni fra persone in base alla fede professata o all’etnia di appartenenza. Abuna Aho ha agito in totale buonafede, secondo tradizione cristiana, tanto che non ha nemmeno ritenuto di dover assumere un avvocato in sua difesa durante il processo. Egli ha ripetuto più volte ai magistrati di aver ‘dato a chiunque, come faccio sempre’ perché è un gesto di carità che non si nega a nessuno”. 

La vicenda desta preoccupazione per i contorni all’interno dei quali si è originata e sviluppata; tuttavia, il vicario d’Anatolia invita a mantenere la calma e a “leggere prima di tutto le motivazioni della sentenza non appena sarà pubblicata, in un’ottica di massima trasparenza”. Di recente gruppi e movimenti attivisti hanno promosso campagne di raccolta firme per la liberazione del monaco, che potrebbero essere rilanciate in queste ore dopo la condanna. Al riguardo, il prelato sottolinea che “è giusto porre l’attenzione sulla vicenda, ma bisogna anche stare attenti a non strumentalizzarla e bisogna prima conoscere le motivazioni che hanno determinato il verdetto dei giudici”. 

La notizia, prosegue mons. Bizzeti, è stata rilanciata dai media turchi e, nel contesto di una “nazione multiculturale, ciascuno ha dato la propria lettura e il proprio commento”. Affermare che vi siano questioni politiche o di fede dietro al verdetto è “prematuro”, ma non si possono negare segnali preoccupanti: fra questi vi sono la trasformazione in moschee delle antiche basiliche di Santa Sofia e S. Salvatore in Chora, la scomparsa di una anziana coppia di cristiani, il ritiro dalla Convenzione di Istanbul [sulla tutela della donna] o la vicenda della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Di ieri è anche il durissimo attacco del presidente del Consiglio Mario Draghi al presidente Recep Tayyip Erdogan: “Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono - ha detto Draghi - di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società“. Immediata (e furiosa) la replica di Ankara che ha convocato l’ambasciatore italiano. 

Nel cosiddetto “Sofà-gate” e in queste ultime vicende, sottolinea il vescovo, “il problema non è tanto la Turchia ma un’Europa incapace di chiedere un protocollo adeguato. Del resto - conclude - la questione della violenza femminile non risparmia nemmeno le nazioni occidentali, dove vi sono molte affermazioni di principio ma all’atto pratico il problema è più ampio”. 

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