Vescovi indonesiani contrari alla legge che legalizza aborto terapeutico e nei casi di stupro
Jakarta (AsiaNews) - Dopo sei mesi di dubbi e discussioni, la Conferenza episcopale indonesiana (Kwi) è intervenuta per fare chiarezza sul tema dell'aborto, in particolare nei casi estremi di gravidanza frutto di violenza sessuale o di rischio immediato per la vita della madre. Con una nota ufficiale, i vescovi sconfessano la proposta di legge governativa che intende legalizzare la pratica per alcune "cause particolarmente significative". Rivolgendosi alla comunità cattolica, e in particolare ai medici e alle operatrici sanitarie, i prelati ricordano il valore supremo della vita umana, che va difesa con forza di fronte agli attacchi di cui è vittima; nel mirino le nuove disposizioni che vorrebbe introdurre il ministero della Sanità, figlie di presunte idee "illuministe", ma che si traducono palesi violazioni del diritto supremo di nascere che è insito in ciascun feto. Del resto, ai tempi della guerra in Bosnia, Giovanni Paolo II ha più riprese ha esortato le donne vittime di stupri a non abortire: "I vostri figli - ha ricordato il Pontefice - non sono responsabili dell'ignobile violenza che avete subito. Non sono loro gli aggressori".
In Indonesia la pratica dell'aborto è illegittima e illegale. Qualsiasi forma di interruzione della vita, fin dal suo concepimento, viene punita dal codice: tanto i medici, quanto i pazienti sono sottoposti a indagine giudiziaria. A dispetto di quanto prevede la legge, gli aborti sono praticati in gran segreto e le le ragioni più varie: gravidanze indesiderate, frutto di rapporti extra-coniugali o di relazioni fra giovanissimi, in seguito a violenze sessuali, o perché il feto presenta "difetti fisici" di varia natura. Tuttavia, in tutto il Paese non vi è una casistica certa perché nella maggior parte dei casi queste pratiche abortive sono eseguite all'interno di "comunità" chiuse e limitate.
Dopo mesi di discussioni e confronti fra sacerdoti, comunità dei fedeli, teologi e filosofi della morale, i vescovi sono intervenuti con una nota ufficiale. Firmata dal presidente Kwi mons. Ignatius Suharyo e dal segretario generale mons. Johannes Pujasumarta, essa intende inviare un messaggio "forte e chiaro" contro la proposta di Legge No.61/Anno2014, incentrata sulla Salute riproduttiva. In prima istanza, i vescovi ribadiscono che "ogni essere umano ha il diritto di vivere, per il solo fatto di avere una vita [propria]" e che essa va difesa e protetta perché frutto della creazione divina.
I prelati sottolineano che solo Dio ha il potere e la legittimazione per disporre della vita di un essere umano. Gli uomini, aggiungono, non hanno il diritto di porre "fine" alla vita, e come ricorda il libro dell'esodo essi non dovranno uccidere. E questa difesa della vita inizia fin dal concepimento, all'interno del ventre materno. "La Chiesa ha sempre mostrato un grande e forte rispetto per la vita umana - avvertono - sin dai primi passi; ecco perché la vita va sempre difesa e protetta". E qualsiasi gesto o atto che sia minaccia, diretta o indiretta, alla vita "non può avere una legittimazione morale".
La nota della Kwi si sofferma poi sulle disabilità fisiche e le malattie, che "non riducono la dignità" della vita umana; ecco perché l'aborto per disabilità fisiche "non è secondo morale e va respinto con forza". Vi è poi il caso di gravidanze frutto di violenze sessuali, che sono di per sé causa di "traumi" nella vita "delle vittime". I vescovi chiedono al riguardo "sostegno morale" e vicinanza alle vittime, nei gesti e con la compassione, affinché possano "riacquistare una loro vita, normale e felice". Ma questa legittima aspirazione, avvertono, non può certo passare attraverso l'atto di mettere "fine" a una nuova vita.
L'embrione, concludono i vescovi, è forse la forma più debole e indifesa di vita umana, perché non è ancora in grado di manifestare sensazioni o sentimenti; tuttavia, Dio esorta la Chiesa a difendere i deboli, i poveri, gli emarginati, le persone più deboli. "Ecco perché l'embrione va difeso e protetto" e, secondo quanto prevede il Diritto Canonico, chi si macchia del crimine dell'aborto è "automaticamente scomunicato".