23/03/2025, 10.19
ECCLESIA IN ASIA
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Verbiti: 150 anni al servizio del mondo

di Giorgio Bernardelli

Nato nei Paesi di lingua tedesca, l’istituto fondato da Arnold Janssen oggi ha più della metà dei suoi missionari provenienti dall’Asia. In prima linea anche nelle periferie esistenziali dell’Europa dei nostri giorni. A Roma dal 27 al 29 marzo rifletterà sulla missione nel mondo di oggi in un convegno internazionale.

Roma (AsiaNews) - Nelle scuole della diocesi di Munster si era guadagnato la fama di educatore. Nel 1873, poi, aveva fatto nascere una rivista, Il piccolo messaggero del Cuore di Gesù, che – come la nostra, nata in quello stesso periodo – faceva entrare nelle case le notizie dalle missioni. Ma a padre Arnold Janssen restava un cruccio: a differenza di quanto accaduto in Francia, in Italia e in altri Paesi europei, in Germania non esisteva un Istituto che inviasse missionari nel mondo.

Sarebbe stato lui, nel 1875, a realizzare questo sogno dando vita alla Società del Verbo Divino, l’Istituto dei Verbiti. Padre Janssen oggi è annoverato tra i santi della Chiesa cattolica e la sua famiglia missionaria è tra le più presenti in tutto il mondo. Ma quegli inizi non furono affatto semplici: la Germania di allora era profondamente segnata dal Kulturkampf, la “battaglia culturale” condotta contro i cattolici dal governo tedesco anche con il carcere e l’espulsione fisica di sacerdoti e religiosi. In un frangente così delicato, a incoraggiare padre Janssen fu proprio un missionario dell’allora Seminario Lombardo per le Missioni Estere, l’Istituto che nel 1926 sarebbe poi diventato il Pime. Padre Timoleone Raimondi – dopo aver preso parte alla prima sfortunata e apparentemente fallimentare esperienza dei missionari di Milano in Melanesia – era diventato il vicario apostolico di Hong Kong e nel 1874, durante una visita in Germania, sostenne con forza l’idea di un Istituto missionario tedesco. Fu così anche grazie a lui che, nel 1875, padre Janssen poté inaugurare la sua “casa missionaria” a Steyl, poco oltre il confine tedesco, nella diocesi olandese di Roermond. Un luogo per la formazione di missionari da inviare in Oriente: i primi due, Johann Baptist Anzer e il futuro santo dei ladini Joseph Freinademetz, su suggerimento del vescovo Raimondi, furono inviati a Hong Kong presso i missionari di Milano per preparar­si al servizio in Cina nello Shandong. Ma la casa di Steyl diventò in fretta anche un eccezionale punto di richiamo per tanti laici che volevano sostenere l’apostolato missionario.

Centocinquant’anni dopo, qual è l’attualità del carisma dei Verbiti? E su quali frontiere questi missionari vivono oggi la loro testimonianza del Vangelo? Se ne parlerà – alla fine di questo mese – in un importante convegno internazionale che la Società del Verbo Divino promuove a Roma dal 27 al 29 marzo all’Università Gregoriana sulla missione nel mondo di oggi. E in vista di questo appuntamento lo abbiamo chiesto anche a padre Anselmo Ricardo Ribeiro, missionario brasiliano di 51 anni con alle spalle esperienze nel Chiapas e nella sua terra d’origine, che dalla scorsa estate guida come superiore generale l’Istituto dei Verbiti. «Padre Janssen – commenta – diceva che l’annuncio del Van­gelo è la prima e la più alta forma di carità. Per questo lui si adoperava perché la Chiesa inviasse missionari a portare la buona novella di Gesù dove ancora non era conosciuta. I tempi cambiano, certo, ma questa intuizione resta attualissima anche per tante frontiere di oggi».

Partire da dove e verso dove? «Fin dagli inizi tra noi fu forte l’idea di una comunità internazionale tra missionari di Paesi dell’area tedesca: Germania, Austria, Sviz­zera, Paesi Bassi… – continua il superiore dei Verbiti -. Oggi ha assunto la dimensione della multiculturalità: proveniamo da 76 Paesi diversi e svolgiamo il nostro ministero in 77 nazioni in tutti e cinque i continenti. Vivere la missione insieme venendo da realtà diverse è parte del nostro dna».

Ormai sono appena il 15% i Verbiti che hanno origini europee: le nuove vocazioni vengono soprattutto dall’Asia, il continente dove i cristiani sono una piccola minoranza. «La metà dei nostri missionari è nata lì – conferma padre Ribeiro -. Il gruppo più numeroso è quello dei confratelli indonesiani, che sono ben 1.575. Poi vengono l’India, le Filippine, il Vietnam, mentre altri 680 sono cresciuti in Paesi africani. Questa pluralità di provenienze è una sfida per noi. Ma è anche un segno per il mondo di oggi».

Una testimonianza chiamata a rendere presente il Vangelo su tante frontiere particolarmente calde. «Penso ai nostri missionari che si trovano sia in Ucraina sia in Russia – commenta il superiore generale -. Ma ho in mente anche Cuba, dove sono stato in visita recentemente: ho incontrato un Paese che per molti aspetti oggi è letteralmente una terra di primo annuncio. O alle realtà che attendono ancora di vivere fino in fondo la sfida dell’inculturazione. Guardo però anche all’Olanda, la terra dove padre Janssen stabilì la nostra prima casa a Steyl e che ci ha donato tanti missionari: ora abbiamo confratelli indonesiani, indiani, ghanesi, congolesi che vivono qui il loro apostolato su tante frontiere esistenziali. Uno di loro, svolgendo il suo servizio in un ospedale, si è trovato davanti a un cattolico che gli ha chiesto la Comunione dicendo: “Padre, è l’ultima che riceverò: ho chiesto l’eutanasia”. Che cosa vuol dire essere missionari in queste situazioni? Siamo chiamati continuamente a domandarcelo».

Che cosa rappresenta l’Europa di oggi per un missionario che proviene dall’Asia? «Lo shock culturale è forte – ammette padre Ribeiro -. Generalmente si arriva da contesti in cui i cristiani sono certamente minoranza, ma dove l’identità religiosa resta molto forte. Al contrario, invece, in Europa ci si ritrova immersi in società secolarizzate, dove non basta aprire la porta della chiesa perché la gente arrivi: nelle città di oggi per tante persone i nostri gesti non significano più nulla. E non vale solo per l’Occidente: anche in un Paese come la Corea del Sud, per esempio, tanti giovani non pensano più a sposarsi o vedono l’idea di una famiglia come un ostacolo alla carriera. Che fare, allora? Si tratta di uscire, andare tra chi è solo, fare i conti con tante ferite. Avvicinarsi per mostrare, pur con tutti i nostri limiti e fragilità, che ci può essere una vita diversa. Far vedere che il Vangelo di Gesù ha una speranza da portare».

Parlare al mondo di oggi. Con missionari che spesso appartengono essi stessi alla Generazione Z: sono ancora tanti i giovani nei noviziati dei Verbiti, solo in Asia quelli attualmente in formazione sono più di 600. Che cosa portano alla vostra congregazione? «Vengono da un contesto che preferisce l’esperienza alla razionalità, frequentano molto meglio di noi l’ambiente digitale – risponde il superiore generale -. Hanno la fortuna di avere ancora alle spalle un’esperienza di famiglia, il che può diventare una testimonianza preziosa in mezzo ai loro coetanei. Come pure il loro senso profondo del sacro, una dimensione che in Occidente si è persa. La sfida, invece, è aiutarli a crescere nella generosità, in un contesto culturale in cui siamo tutti molto più centrati su noi stessi».

Con una bussola che resta chiara: il riferimento al Verbo divino, lo sguardo cioè a Gesù come Parola di Dio fatta carne, che padre Janssen volle nello stesso nome dell’Istituto. «L’apostolato biblico è una dimensione fondamentale del nostro ministero – commenta padre Ribeiro -. Che vuol dire, prima di tutto, ascolto della Parola di Dio nelle nostre comunità, per poi condividerla con gli altri nella vita di tutti i giorni».

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