Un traghetto sul fiume Mekong, la nuova frontiera della missione in Cambogia
Kdol Leu (AsiaNews) - Riportiamo di seguito la lettera che in questi giorni, p. Luca Bolelli ha inviato ai suoi amici nel mondo. Originario di Bologna, è un sacerdote del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), in Cambogia da otto anni.
Carissimi amici,
un saluto fraterno dalla Cambogia! Grazie per tutto quanto state facendo per la Chiesa e il popolo cambogiano. Quest’anno vorrei raccontarvi del... traghetto.
Non avrei mai pensato che un semplice traghetto potesse diventare un luogo così interessante. Eppure ho come la sensazione di aver incontrato più persone là sopra che sulla terraferma! So che non è vero, ma ogni volta che salgo su quel barcone, mi ritrovo immerso in una folla così eterogenea, che mi sembra sia presente tutto il mondo: khmer, cham, vietnamiti, buddisti, musulmani, giovani donne con bambini appesi ovunque, donne anziane cariche di pesce per il mercato, gruppi di studenti in uniforme scolastica, povere famiglie compresse come spiedini sulla sella di una misera motoretta, ricche famiglie comodamente sedute in grosse macchine, pulmini stipati di passeggeri confusi tra le valigie, turisti di vari colori, venditori ambulanti di ogni tipo, poliziotti in divisa e gente semplice.
Diversi volti di questa folla mi sono familiari, ma tanti altri mi risultano sempre nuovi, nonostante siano ormai parecchi anni che prendo il traghetto per attraversare il fiume Mekong. È infatti l’unico modo per passare dall’altra parte, a Stung Trong, dove si trova il nostro Centro Studenti. A volte c’è da aspettare anche più di un’ora prima che arrivi, si riempia, e riprenda la traversata di quel chilometro di acqua che separa le due rive. “Tempo perso!”, mi veniva da pensare all’inizio. “Tempo speciale”, mi viene da dire ora. È un po’ come quando ti trovi nella sala d’attesa di una stazione o di un ambulatorio medico. Sei lì, in mezzo a tante altre persone per lo più sconosciute, in attesa. Un momento spesso imbarazzante, che ognuno cerca di riempire come può. Ma qui in Cambogia è diverso. Qui anche se non ci si conosce, si attacca bottone con facilità. Basta pensare che il saluto normale (il nostro “buongiorno”) in cambogiano è una domanda, “dove vai?”, e questa può dare inizio ad una lunga conversazione con chiunque!
Ricordo quella volta: era l’ultimo traghetto della giornata, avevo appena finito di parlare al telefono, e un uomo dal volto un po’ sinistro mi chiede dove stessi andando; da lì tutta la serie classica di domande: “dove abiti?”, “che lavoro fai?”, “sei sposato?” [in Cambogia c’è un concetto molto tollerante di privacy!]. E quando ha saputo che ero un leader cristiano della zona, si è improvvisamente entusiasmato: “Vieni al mio villaggio! Apri una chiesa!! Una scuola!!!”. Mi ha chiesto il numero di telefono, e qualche settimana dopo sono stato anche a trovarlo. Poi purtroppo, per mancanza di forze, non siamo finora riusciti a fare niente.
Ricordo anche quell’altra volta: la lunga chiacchierata con un signore musulmano sulle nostre rispettive religioni. Lui stava seguendo il digiuno del Ramadan, ma allo stesso tempo ogni giorno a pancia vuota doveva lavorare per mantenere la famiglia. Il suo tono pacato, le domande sincere e interessate che mi faceva, mi avevano profondamente colpito. Molto diverse da quelle di un altro signore che, tempo prima, avendo saputo che ero cristiano mi aveva spudoratamente riso in faccia!
Sul traghetto c’è veramente un mondo da incontrare. Come Nott, 40 anni, di cui venti e più bruciati dall’alcool. Un giorno ha deciso di cambiare vita, ha sentito dire che al traghetto cercavano della manovalanza e così ha colto l’occasione per allontanarsi dal proprio villaggio e guadagnarsi qualche soldo. Quante chiacchierate abbiamo fatto insieme appoggiati al passamano del traghetto. Provavo una sincera stima per quell’uomo capace di rompere con un vizio così radicato. Purtroppo poi (anche lui) ha litigato con la padrona del traghetto e se ne è andato. L’ho intravisto con piacere qualche giorno fa mentre lavorava vicino ad una barca. Spero di cuore che la sua nuova vita stia continuando.
Tornando alla padrona del traghetto, anche lei, seppur dopo un iniziale periodo di diffidenza fatto di mezze sillabe, alla fine era diventata un’abituale compagna di traversata. Ed era proprio lei che tante volte interveniva mentre qualcuno si informava sul mio “stato matrimoniale”, affermando, quasi con una punta d’orgoglio: “Non è sposato, è celibe come i nostri monaci buddisti, ma lui lo è per tutta la vita!”. Anche lei, qualche mese fa, se n’è dovuta andare. Coi suoi modi bruschi ha attirato l’inimicizia di troppe persone e, dopo un anno di proteste, il ministero dei Trasporti ha deciso di revocarle la licenza e assumere la gestione del traghetto.
Diverse volte ho incontrato anche dei turisti barang (occidentali): spesso ciclisti più o meno attrezzati, a volte centauri su grosse moto fuoristrada o in gruppi organizzati da qualche agenzia viaggi. In questi casi sono io a prendere l’iniziativa: “Dove andate? Da dove venite? Cosa fate?”. Qualcuno mi guarda diffidente, facendomi capire che non è aria, qualcun altro invece ci sta e ne escono degli scambi anche molto simpatici. C’è pure chi si è addirittura fermato a casa mia, come Eveline, francese di vent’anni, che stava girando il mondo da sola in bicicletta. Quel giorno ero in gita-premio con i collaboratori della missione e l’abbiamo incrociata sul traghetto; sono bastate poche parole, insieme a un po’ di fiducia nel prossimo, ed Eveline è diventata una dei nostri.
Nella lingua cambogiana l’espressione “attraversare il fiume” con un traghetto, viene usata anche per indicare il parto di una donna. Il parto, così come l’attraversamento delle acque infide del fiume, è sempre un rischio. Penso a Ming Touch che ha dato alla luce in questi giorni una bella bimba di quasi 3 chili; penso a Maria quando ha partorito Gesù, lontana da casa, in una stalla. Maria ha “attraversato il fiume” come Ming Touch. Ma non solo loro. Dicono infatti che la vita è un continuo parto, un continuo rinascere: uscire da se stessi, riprendere ogni volta il cammino, e attraversare i tanti “fiumi” che sembrano interrompere la nostra strada.
Il governo ha annunciato per il prossimo anno la costruzione di un ponte che prenderà il posto del traghetto. Attraversare il fiume sarà più facile, più veloce, e meno rischioso. Ma devo essere sincero, non è una notizia che mi rallegri, perché perderemo così anche il “rischio” di fare incontri imprevisti, forzati dai tempi lenti e dagli spazi ristretti del traghetto.
Ah, mi dimenticavo di Visna! Da un po’ di mesi lo si incontra spesso sul traghetto, con i suoi pantaloni logori, consumati dal doversi trascinare per terra, le gambe infatti sono rigide e non lo reggono. Vive chiedendo la carità, ma è ancora giovane, ha meno di 30 anni. È orfano, e fin da piccolo nessuno si è mai veramente interessato di lui; d’altronde secondo la mentalità comune se lui è così in fondo sono affari suoi, se lo deve essere meritato in qualche vita precedente; dargli una manciata di riels, come carità, è più che sufficiente. Visna quindi è abituato ad essere guardato dall’alto verso il basso. Ma quando salgo sul traghetto e incrocio il suo sguardo per scambiare almeno un sorriso, mi risuona spesso quella parola di Gesù che dice: “Il più piccolo in mezzo a voi, è il più grande”.
E quando vedo certe macchine di lusso, con tanto di targa governativa luccicante, arrivare sul traghetto facendosi spazio, mi immagino che un bel momento si fermino davanti a Visna per inchinarsi, come i re magi davanti al bambino Gesù! Gesù infatti si è fatto piccolo e ha scelto i piccoli come suoi rappresentanti: “Quello che avete fatto al più piccolo l’avete fatto a me” ha detto un giorno. Il mese prossimo Visna andrà a studiare nel centro disabili tenuto dai Gesuiti a Phnom Penh. Dopo aver bussato qua e là, sembra che siamo riusciti a trovare il posto giusto per lui.
È molto contento. Anche noi!
Buon Natale e Buon Anno nuovo!
Il Signore doni tanta pace, a Nott, a Visna, a tutti.