Tutti i danni del terribile “modello Cina”
di Wei Jingsheng
La crisi economica globale ha messo a nudo i problemi strutturali dell’economia cinese, in mano ai capitalisti sostenuti dalla violenza del regime comunista. Le piccole e medie imprese, vero motore dell’economia, chiudono mentre i fondi statali vanno alle imprese statali. Che le usano per speculare e peggiorare ancora di più la vita della popolazione. L’analisi del grande dissidente.
Washington (AsiaNews) - I dati di ricerca accademica presentati dall’Accademia cinese per le Scienze sociali mostrano che il 99 % delle imprese cinesi sono di statura media o piccola. Queste piccole e medie imprese (Pmi) contribuiscono circa al 60 % del Prodotto interno lordo, forniscono più del 50 % del gettito fiscale e danno circa il 75 % dei posti di lavoro nelle aree urbane. Il fatto che nello scorso anno il 40 % delle Pmi sia stato chiuso pone delle domande, che la gente rivolge nei confronti dei dati del governo.
Data l’iper-produzione nel mercato automobilistico, alla fine del 2011 ci saranno 10 milioni di veicoli in eccesso in Cina. Questo dato supera l’intera produzione giapponese del 2009. Un altro grande problema viene dal surplus del mercato immobiliare, che ha creato una bolla pari al 30 % dell’intera situazione abitativa. Al momento ci sono 64,5 milioni di appartamenti vuoti nel Paese, abbastanza per dare una casa a 200 milioni di persone.
Nel Paese, si stima che 1.300 persone controllino circa mille miliardi di dollari di investimenti. Secondo un sondaggio condotto da alcune istituzioni finanziarie occidentali, l’1,5 % della popolazione cinese possiede il 45 % dei depositi bancari e il 67 % degli asset finanziari. Il coefficiente Gini (che misura la disparità negli stipendi) ha raggiunto lo 0,57. Nei primi anni Ottanta, esso era pari allo 0,25; negli anni Novanta arrivava allo 0,39. Questo coefficiente odierno è di gran lunga superiore allo 0,43 degli Stati Uniti e allo 0,37 dell’India. In Cina, la popolazione che vive nei pressi dell’assoluta povertà -ovvero un guadagno quotidiano uguale o inferiore ai 2 dollari al giorno - è pari alla metà dell’intera popolazione (1,3 miliardi di persone).
Le imprese controllate dallo Stato succhiano circa il 75 % del totale degli investimenti, oltre a controllare circa i 2/3 degli asset totali. Durante la crisi economica e finanziaria che ha colpito il mondo fra il 2008 e il 2010, alle aziende statali è andato il 90 % dell’intero pacchetto di aiuti economici per stimolare l’economia. Eppure, l’80 % dei profitti aziendali in Cina proviene dalle 120mila Pmi (private) e da circa 12 delle maggiori industrie statali. Soltanto grazie a queste condizioni di monopolio è stato permesso ad aziende enormi come la Sinopec di realizzare enormi profitti.
Dopo aver letto tutti questi dati, possiamo immaginare cosa è andato male: dove sono nati i problemi economici e sociali della Cina. Il “modello Cina” è veramente un modello economico di tipo socialista che, come un vampiro, succhia il sangue dall’impresa privata e ottiene i vantaggi della cosiddetta “economia orientata alle esportazioni”, in modo da ottenere benefici danneggiando gli altri. Le economie di mercato semi-privato devono usare i profitti che ottengono dal mercato internazionale grazie al basso costo del lavoro per riparare i danni dell’economia statale e delle imprese rette da un gruppetto di capitalisti burocrati. Ma i capitali accumulati verranno usati per espandere e migliorare gli elementi tecnici dell’economia cinese? Molto probabilmente, no.
Sono pochissime le Pmi che, ottenuti dei profitti dal mercato straniero, decidono di investirli in miglioramenti tecnologici: e questo avviene perché i vantaggi che si possono ottenere con il lavoro a basso costo - che sfrutta delle enormi violazioni ai diritti umani dei lavoratori - sembra sempre la strada più conveniente. Fino a che si riescono a vendere dei prodotti di bassa qualità, a che serve spendere denaro per migliorare la tecnologia? Accoppiata con l’ingiustizia e la corruzione del governo, questa situazione fa sì che i profitti ottenuti non siano poi così alti. Molti degli investitori privati, che guidano le Pmi, stanno iniziando a trasferire la maggior parte dei propri capitali all’estero, in modo da aiutare loro e le proprie famiglie a sopravvivere ai cambiamenti sociali in corso. Chi potrebbe comprare queste compagnie, una volta compiuti dei miglioramenti tecnologici? Nessuno, ed ecco perché i padroni attuali non fanno nulla e non beneficiano la popolazione.
Di conseguenza, il cosiddetto “modello Cina” dominato dall’economia orientata verso l’esportazione non ha fatto quello che doveva, con i profitti eccessivi ottenuti dopo aver riempito di spazzatura i mercati occidentali. Non ha formato o consentito un effettivo accumulo nella società cinese, ha a stento migliorato di poco i contenuti tecnologici dell’entità economica del Paese. I risultati di questo strano fenomeno si vedono adesso. Appena si verifica un problema nei mercati internazionali, praticamente la metà delle Pmi chiude. Eppure per la Cina i calcoli statistici prevedono un raddoppio nella crescita del Pil del prossimo anno: ma questa crescita è il risultato di inflazione e frode del sistema statistico. La vera crescita economica, al momento, è negativa.
Oltre al fattore tecnologico delle Pmi, la politica finanziaria del governo cinese è il secondo fattore per importanza che spiega l’enorme chiusura delle aziende nel Paese. Durante la recessione economica globale, il governo ha aumentato gli investimenti per salvare l’economia: e questo è comprensibile. Tuttavia, questo denaro non è stato usato per salvare le Pmi, ma è stato versato quasi tutto in quelle aziende statali, o in mano a burocrati dello Stato, che l’hanno ottenuto grazie alla corruzione politica. Le imprese del grande capitale, che non avevano bisogno di fondi, hanno usato le iniezioni economiche governative per speculare: questo ha creato la bolla immobiliare. Così da una parte vediamo la chiusura di piccole e medie imprese che creano profitto, mentre dall’altra si deforma il mercato immobiliare con i fondi che servivano per salvare le Pmi.
Il problema più ingente viene però dai 3mila miliardi di dollari di debito estero americano che Pechino ha in cassa. Queste riserve dovrebbero essere usate come scambio per emettere altra valuta durante i terremoti economici. In recessione, il governo dovrebbe applicare una politica di mantenimento della valuta interna per tenere a bada l’inflazione. Questo approccio specifico è molto semplice: permettere la libera conversione della valuta straniera da una parte e dall’altra alzare il tasso di scambio di valute. In questo modo la circolazione della moneta interna sul mercato verrebbe ridotta, e l’inflazione declinerebbe in maniera naturale. Ma perché il governo cinese si mantiene sulla sua posizione, e non applica queste semplici misure? A causa delle differenze fra la politica democratica e quella governata dal capitalismo dei burocrati.
Dal punto di vista di questi ultimi, eliminare l’inflazione non è un beneficio dato che comunque continuano ad accumulare profitti in eccesso. Radunare gli yuan della popolazione e alzare i tassi di scambio, favorendone la libera circolazione, ed eventualmente inviare all’estero i profitti eccessivi rimane per loro la strada migliore. Inoltre, apprezzare lo yuan renderebbe ancora più difficile trovare compratori per gli immobili in eccesso che già gravano sul mercato. Il collasso del mercato immobiliare cinese sarebbe un danno diretto ai burocrati capitalisti. Si tratta di un danno che loro, che controllano la politica, non sono disposti ad accettare. Naturalmente, neanche il regime del Partito comunista cinese - che gode del sostegno di questi capitalisti, è disposto ad accettarlo. La politica è divenuta la politica dei capitalisti, ancora più lontana dai problemi e dagli interessi della media della popolazione. E questo è il motivo alla base dell’impossibilità di risolvere i problemi sociali ed economici cinesi.
Dal punto di vista dell’interesse nazionale della popolazione cinese, la questione è totalmente rovesciata. Aprire il libero scambio della valuta e aumentare il tasso dello yuan, insieme all’apertura di un mercato corretto delle importazioni, eliminerebbe entro sei mesi il problema dell’inflazione. Non sarebbe migliore soltanto la vita dei cinesi: il miglioramento delle tecnologie nelle Pmi creerebbe condizioni di lavoro migliore. Insieme a una relativa espansione del mercato dei consumatori interni, queste politiche aiuterebbero la sopravvivenza di quelle imprese. E questo migliorerebbe la vita della gente senza colpire nessuno.
Ma questo renderebbe impossibile ai capitalisti dal cuore nero di fare soldi. Ancora più importante, rischierebbero la bancarotta quei tycoon del settore immobiliare che hanno avuto enormi vantaggi dalle demolizioni forzate e dai terreni espropriati con la forza dal governo. E quindi la Cina perderebbe la metà dei propri miliardari. Allo stesso tempo, i prezzi delle case crollati dopo le bancarotte ridurrebbero della metà la popolazione che non trova un posto dove stare. In questa guerra di interessi, vediamo con chiarezza che tipo di governo sia quello del Partito comunista cinese. Un potere politico, in mano ai capitalisti, che lotta contro la propria popolazione.
Data l’iper-produzione nel mercato automobilistico, alla fine del 2011 ci saranno 10 milioni di veicoli in eccesso in Cina. Questo dato supera l’intera produzione giapponese del 2009. Un altro grande problema viene dal surplus del mercato immobiliare, che ha creato una bolla pari al 30 % dell’intera situazione abitativa. Al momento ci sono 64,5 milioni di appartamenti vuoti nel Paese, abbastanza per dare una casa a 200 milioni di persone.
Nel Paese, si stima che 1.300 persone controllino circa mille miliardi di dollari di investimenti. Secondo un sondaggio condotto da alcune istituzioni finanziarie occidentali, l’1,5 % della popolazione cinese possiede il 45 % dei depositi bancari e il 67 % degli asset finanziari. Il coefficiente Gini (che misura la disparità negli stipendi) ha raggiunto lo 0,57. Nei primi anni Ottanta, esso era pari allo 0,25; negli anni Novanta arrivava allo 0,39. Questo coefficiente odierno è di gran lunga superiore allo 0,43 degli Stati Uniti e allo 0,37 dell’India. In Cina, la popolazione che vive nei pressi dell’assoluta povertà -ovvero un guadagno quotidiano uguale o inferiore ai 2 dollari al giorno - è pari alla metà dell’intera popolazione (1,3 miliardi di persone).
Le imprese controllate dallo Stato succhiano circa il 75 % del totale degli investimenti, oltre a controllare circa i 2/3 degli asset totali. Durante la crisi economica e finanziaria che ha colpito il mondo fra il 2008 e il 2010, alle aziende statali è andato il 90 % dell’intero pacchetto di aiuti economici per stimolare l’economia. Eppure, l’80 % dei profitti aziendali in Cina proviene dalle 120mila Pmi (private) e da circa 12 delle maggiori industrie statali. Soltanto grazie a queste condizioni di monopolio è stato permesso ad aziende enormi come la Sinopec di realizzare enormi profitti.
Dopo aver letto tutti questi dati, possiamo immaginare cosa è andato male: dove sono nati i problemi economici e sociali della Cina. Il “modello Cina” è veramente un modello economico di tipo socialista che, come un vampiro, succhia il sangue dall’impresa privata e ottiene i vantaggi della cosiddetta “economia orientata alle esportazioni”, in modo da ottenere benefici danneggiando gli altri. Le economie di mercato semi-privato devono usare i profitti che ottengono dal mercato internazionale grazie al basso costo del lavoro per riparare i danni dell’economia statale e delle imprese rette da un gruppetto di capitalisti burocrati. Ma i capitali accumulati verranno usati per espandere e migliorare gli elementi tecnici dell’economia cinese? Molto probabilmente, no.
Sono pochissime le Pmi che, ottenuti dei profitti dal mercato straniero, decidono di investirli in miglioramenti tecnologici: e questo avviene perché i vantaggi che si possono ottenere con il lavoro a basso costo - che sfrutta delle enormi violazioni ai diritti umani dei lavoratori - sembra sempre la strada più conveniente. Fino a che si riescono a vendere dei prodotti di bassa qualità, a che serve spendere denaro per migliorare la tecnologia? Accoppiata con l’ingiustizia e la corruzione del governo, questa situazione fa sì che i profitti ottenuti non siano poi così alti. Molti degli investitori privati, che guidano le Pmi, stanno iniziando a trasferire la maggior parte dei propri capitali all’estero, in modo da aiutare loro e le proprie famiglie a sopravvivere ai cambiamenti sociali in corso. Chi potrebbe comprare queste compagnie, una volta compiuti dei miglioramenti tecnologici? Nessuno, ed ecco perché i padroni attuali non fanno nulla e non beneficiano la popolazione.
Di conseguenza, il cosiddetto “modello Cina” dominato dall’economia orientata verso l’esportazione non ha fatto quello che doveva, con i profitti eccessivi ottenuti dopo aver riempito di spazzatura i mercati occidentali. Non ha formato o consentito un effettivo accumulo nella società cinese, ha a stento migliorato di poco i contenuti tecnologici dell’entità economica del Paese. I risultati di questo strano fenomeno si vedono adesso. Appena si verifica un problema nei mercati internazionali, praticamente la metà delle Pmi chiude. Eppure per la Cina i calcoli statistici prevedono un raddoppio nella crescita del Pil del prossimo anno: ma questa crescita è il risultato di inflazione e frode del sistema statistico. La vera crescita economica, al momento, è negativa.
Oltre al fattore tecnologico delle Pmi, la politica finanziaria del governo cinese è il secondo fattore per importanza che spiega l’enorme chiusura delle aziende nel Paese. Durante la recessione economica globale, il governo ha aumentato gli investimenti per salvare l’economia: e questo è comprensibile. Tuttavia, questo denaro non è stato usato per salvare le Pmi, ma è stato versato quasi tutto in quelle aziende statali, o in mano a burocrati dello Stato, che l’hanno ottenuto grazie alla corruzione politica. Le imprese del grande capitale, che non avevano bisogno di fondi, hanno usato le iniezioni economiche governative per speculare: questo ha creato la bolla immobiliare. Così da una parte vediamo la chiusura di piccole e medie imprese che creano profitto, mentre dall’altra si deforma il mercato immobiliare con i fondi che servivano per salvare le Pmi.
Il problema più ingente viene però dai 3mila miliardi di dollari di debito estero americano che Pechino ha in cassa. Queste riserve dovrebbero essere usate come scambio per emettere altra valuta durante i terremoti economici. In recessione, il governo dovrebbe applicare una politica di mantenimento della valuta interna per tenere a bada l’inflazione. Questo approccio specifico è molto semplice: permettere la libera conversione della valuta straniera da una parte e dall’altra alzare il tasso di scambio di valute. In questo modo la circolazione della moneta interna sul mercato verrebbe ridotta, e l’inflazione declinerebbe in maniera naturale. Ma perché il governo cinese si mantiene sulla sua posizione, e non applica queste semplici misure? A causa delle differenze fra la politica democratica e quella governata dal capitalismo dei burocrati.
Dal punto di vista di questi ultimi, eliminare l’inflazione non è un beneficio dato che comunque continuano ad accumulare profitti in eccesso. Radunare gli yuan della popolazione e alzare i tassi di scambio, favorendone la libera circolazione, ed eventualmente inviare all’estero i profitti eccessivi rimane per loro la strada migliore. Inoltre, apprezzare lo yuan renderebbe ancora più difficile trovare compratori per gli immobili in eccesso che già gravano sul mercato. Il collasso del mercato immobiliare cinese sarebbe un danno diretto ai burocrati capitalisti. Si tratta di un danno che loro, che controllano la politica, non sono disposti ad accettare. Naturalmente, neanche il regime del Partito comunista cinese - che gode del sostegno di questi capitalisti, è disposto ad accettarlo. La politica è divenuta la politica dei capitalisti, ancora più lontana dai problemi e dagli interessi della media della popolazione. E questo è il motivo alla base dell’impossibilità di risolvere i problemi sociali ed economici cinesi.
Dal punto di vista dell’interesse nazionale della popolazione cinese, la questione è totalmente rovesciata. Aprire il libero scambio della valuta e aumentare il tasso dello yuan, insieme all’apertura di un mercato corretto delle importazioni, eliminerebbe entro sei mesi il problema dell’inflazione. Non sarebbe migliore soltanto la vita dei cinesi: il miglioramento delle tecnologie nelle Pmi creerebbe condizioni di lavoro migliore. Insieme a una relativa espansione del mercato dei consumatori interni, queste politiche aiuterebbero la sopravvivenza di quelle imprese. E questo migliorerebbe la vita della gente senza colpire nessuno.
Ma questo renderebbe impossibile ai capitalisti dal cuore nero di fare soldi. Ancora più importante, rischierebbero la bancarotta quei tycoon del settore immobiliare che hanno avuto enormi vantaggi dalle demolizioni forzate e dai terreni espropriati con la forza dal governo. E quindi la Cina perderebbe la metà dei propri miliardari. Allo stesso tempo, i prezzi delle case crollati dopo le bancarotte ridurrebbero della metà la popolazione che non trova un posto dove stare. In questa guerra di interessi, vediamo con chiarezza che tipo di governo sia quello del Partito comunista cinese. Un potere politico, in mano ai capitalisti, che lotta contro la propria popolazione.
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