Turchia: tempi troppo lunghi per la legge sui beni delle Chiese, chiesta dall'Ue
Secondo un esperto, l'Unione europea deve tralasciare gli aspetti secondari e non avere timore di affrontare il nucleo del problema: l'effettiva libertà religiosa.
Ankara (AsiaNews/Forum18) Da anni il parlamento turco discute, ma non approva, una nuova legge sul diritto di proprietà delle comunità religiose, considerata necessaria per l'ammissione di Ankara nell'Unione europea. Secondo un autorevole esperto, è ora di affrontare il vero problema: l'effettiva libertà religiosa.
In Turchia solo alcune minoranze religiose non islamiche possono avere beni, tramite le c.d. "fondazioni della comunità". La nuova legge - in discussione dal 2002 su pressioni dell'Unione europea - dovrebbe consentire alle comunità religiose non islamiche di mantenere le proprietà attuali (spesso detenute in modo precario) e di recuperare quelle tolte negli ultimi 70 anni. Ma osservano le minoranze religiose il governativo Direttorato generale per le Fondazioni afferma esserci solo 160 fondazioni oggi riconosciute dallo Stato, tra cui non rientrano, ad esempio, quelle di Chiesa cattolica, Chiese protestanti, Testimoni di Geova e Bahai: non risulta chiaro che destino avranno i beni di queste comunità.
Il governo ha difficoltà a riconoscere le fondazioni anche perché dice Otmar Oehring, leader del gruppo cattolico tedesco Missio dovrebbe restituire le molte proprietà tolte alle comunità religiose sin dagli anni '30, specie quelle cristiane ed ebree: luoghi di culto, scuole, ospedali, terreni, molti dei quali sono stati venduti e per i quali dovrebbe pagare un indennizzo.
Per attuare davvero la libertà religiosa in Turchia aggiunge - occorre "cambiare la stessa Costituzione", riconoscere questo diritto "sia agli individui che ai gruppi" e "approvare una legge che lo renda effettivo", senza accontentarsi di cambiamenti secondari, che peraltro consentono al governo di evitare un reale riconoscimento di questo diritto. L'attuale art. 24 osserva riconosce il diritto di professare e praticare una fede, ma non garantisce la possibilità di cambiare fede o di riunirsi con altri fedeli in una comunità. Le comunità religiose non hanno il diritto di organizzarsi come credono, di possedere di beni e di gestirli, di ottenere riconoscimento legale.
Occorre anche aggiunge dare attuazione all'art. 9 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo (Cedu), che garantisce piena libertà di religione. Diritto che comprende, come recita la norma, anche "la libertà, sia del singolo che della comunità, di professare la propria religione, in pubblico e in privato". La Commissione Europea, nella Proposta per l'ammissione come partner della Turchia, ha specificato che Ankara deve prima: riconoscere piena "libertà di religione", concetto che comprende "l'adozione di una legge" che rimuova gli ostacoli che oggi colpiscono "le minoranze religiose non musulmane e le loro associazioni, in linea con gli elevati standard europei"; "sospendere le confische e le vendite dei beni" degli enti religiosi non islamici, in attesa di una nuova legge in materia; riconoscere e attuare quanto necessario per consentire "l'effettiva libertà di pensiero, coscienza e religione sia per l'individuo che per le comunità, in linea con la Cedu" e considerando le raccomandazioni del Consiglio della Commissione europea contro razzismo e intolleranza; stabilire le condizioni per consentire la vita di queste comunità, in accordo con quanto praticato negli Stati membri, compresa la protezione legale e giudiziale delle comunità, dei loro membri, del clero e delle proprietà. Occorre riconoscere l'effettivo diritto delle comunità di organizzarsi in forme diverse dalla fondazione e di scegliersi i loro dirigenti, liberi dalle intrusioni dello Stato che spesso li ha rimossi, specie per le fondazioni delle comunità Apostolica armena e Greca ortodossa.
"Ci sono indizi conclude che parte della dirigenza del governativo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) possa comprendere l'importanza della libertà religiosa", anche se "non osa dirlo, per paura di provocare i potenti ambienti militari". (PB)