Turchia, corpi spostati oltre il confine iraniano per nascondere le morti dei rifugiati
Dopo la vicenda della madre assiderata per scaldare i figli, ancora morti alla frontiera. Con l’ascesa dei talebani cresce il flusso migratorio dall’Afghanistan alla Turchia, nel (vano) tentativo di entrare in Europa. L’opera della Caritas: pasti, alloggio, corsi di lingua e professionali per favorire l’integrazione. La storia di Shayan, in fuga per la libertà.
Istanbul (AsiaNews) - Negli ultimi due mesi almeno otto rifugiati sono deceduti per assideramento nelle aree di confine alle porte dell’Europa; due di queste morti hanno coinvolto afghani - fra cui una madre con due figli - che hanno perso la vita nel distretto di Seraw, punta estrema della provincia orientale di Van, alla frontiera fra Iran e Turchia. Storie di disperazione, di fuga da violenze ed estremismi in seguito all’ascesa degli studenti coranici a Kabul verso un futuro che riserva altrettante sofferenze, privazioni e morte. Per centinaia di migliaia di rifugiati il suolo turco si è trasformato in un muro, non solo fisico, contro cui si abbattono le speranze di riscatto e salvezza. Per tutti il riscatto è racchiuso in due parole: libertà e dignità.
Nell’ultimo periodo si sono moltiplicati immagini e video in rete di profughi che tentano di varcare la frontiera che separa l’ex impero ottomano dalla Repubblica islamica, sfidando le imponenti nevicate e il freddo pungente. Secondo la Mesopotamia Agency (Ma) i soldati turchi sono soliti respingere oltre-confine i corpi delle vittime decedute a causa delle intemperie, come conferma la terribile vicenda di una rifugiata afghana morta assiderata a Özalp il 30 dicembre scorso. Nel disperato tentativo di riscaldare i figli, la donna si è spogliata dei propri abiti e li ha ceduti ai bambini. Gli abitanti del villaggio turco li hanno soccorsi, per poi affidarli ai soldati iraniani.
Nei giorni seguenti l’ufficio del governatore locale ha precisato che la giovane madre “è stata sorpresa da una tempesta” di neve ed è deceduta per congelamento, mentre i figli “hanno proseguito il cammino” fino a raggiungere il villaggio. La nota parla di “triste incidente” che “non è avvenuto all’interno dei nostri confini [turchi]”, nel tentativo di allontanare ogni responsabilità. Secondo la Human Rights Association (İhd), negli ultimi tre anni almeno 160 rifugiati hanno perso la vita nella provincia di Van. Di questi, almeno 49 sono morti per ipotermia, altri 68 annegati nell’omonimo lago; a questi si aggiungono i 42 deceduti in incidenti stradali e uno colpito da armi da fuoco. Hamdi Bayhan, membro del direttivo İhd a Van, sottolinea che “è giunto il tempo di adempiere alle nostre responsabilità nei confronti dei rifugiati”. Essi sono “usati come manodopera a basso costo” e sottoposti “a tutti i tipi di abuso” oltre a essere “bersaglio di crimini di odio e di discriminazione”.
Bersaglio di odio
Il rapporto Onu 2021 sui migranti e rifugiati rivela come già prima dell’ascesa dei talebani in Afghanistan la realtà fosse critica. Oltre un quarto della popolazione aveva abbandonato le proprie abitazioni, portando il numero degli sfollati interni a quota 3,5 milioni. A novembre António Vitorino, direttore generale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), aveva parlato di nazione “sull’orlo del collasso”. I rifugiati in fuga dagli studenti coranici si lasciano alle spalle una società in cui è la legge islamica a dettare regole e abitudini di vita. A questo si somma la minaccia di pesanti crisi umanitarie, tanto che si torna già a morire di morbillo.
In Turchia, come in molte altre parti del mondo, migranti e rifugiati sono visti con sospetto e si sono trasformati nel tempo in bersaglio privilegiato della propaganda politica. Negli anni 50 del secolo scorso, nella seconda parte del saggio Le origini del totalitarismo, dedicato all’imperialismo, la studiosa Hannah Arendt sottolinea che vengono percepiti come una minaccia perché spezzano la visione “trinitaria” che lega Stato-popolo-territorio. Essi hanno già perso tutti i diritti lasciando il loro Paese e si trovano in una condizione di ulteriore vulnerabilità, soggetti a retorica incendiaria, attacchi xenofobi e rivalse nazionaliste che arrivano soprattutto da persone appartenenti alle classi medie e medio-basse. Sono proprio loro, in una fase di crisi, ad individuare nello straniero la causa del malessere. Tuttavia, i rifugiati sono nella maggior parte dei casi vittime e non di rado mettono a repentaglio la loro stessa vita, o quella dei figli, nel tentativo disperato di fuga. La conta delle vittime è sommaria, ma una fonte cattolica in Anatolia conferma che “solo nelle ultime due settimane molte persone sono morte cercando di varcare i monti lungo la frontiera”.
Shayan, in fuga per la libertà
“Siccome non credo all’islam, i religiosi hanno deciso di uccidermi e in un attacco mi hanno ferito alla testa e rotto due costole, che sono rimaste storte”. Shayan (ci confida solo il nome) racconta ad AsiaNews la sua storia di rifugiato, con studi all’università di Kabul e una esperienza di 10 anni nel cinema e nella televisione, prima di abbandonare una nazione “che America, Nato e l’ex Stato afghano hanno consegnato nelle mani dei talebani”. Originario di Samangan, egli è una delle decine di persone accolte e aiutate da Caritas Turchia dopo “aver lasciato i miei sogni e la mia patria” e che giunto in Turchia dopo un viaggio “illegale e pericoloso” attraverso l’Iran. Un viaggio iniziato nel 2015, durante la prima fase della guerra fra l’allora governo di Kabul e gli studenti coranici. “Nella provincia di Zabul - ricorda - siamo rimasti coinvolti per due settimane nel fuoco incrociato. Una notte abbiamo attraversato il confine e i soldati iraniani hanno aperto il fuoco, alcuni di noi sono rimasti feriti. Siamo stati catturati e rispediti oltre-frontiera”.
Shayan ha attraversato due volte il confine con l’Iran e una volta quello con la Turchia e solo al quarto tentativo ha potuto lasciarsi il passato alle spalle. “Lungo questa tratta - conferma - è alto il rischio di essere uccisi o attaccati da banditi o guardie di frontiera”. Oggi cerca, seppure a fatica, di ricostruirsi una vita e progettare il futuro “con l’aiuto economico della Caritas” grazie alla quale “ho iniziato un nuovo percorso scolastico. Non potendo lavorare ho pensato di dedicarmi allo studio; noi rifugiati, in Turchia, possiamo svolgere solo mansioni dure e in condizioni illegali”. Tuttavia, egli non ha perso la speranza di poter vivere “in un Paese dove essere libero di viaggiare, lavorare, condurre un’esistenza dignitosa”.
La Caritas per i rifugiati
Caritas Turchia è fra le poche istituzioni ad offrire una speranza ai profughi e solo il mese scorso si è fatta carico dei bisogni quotidiani di 14 nuove famiglie, composte da vedove con figli. L’ente cattolico ha affittato alcune case e aprirà a breve una mensa dove sfamare almeno 30 famiglie, per un totale di 120 persone. “Bastano due euro al giorno - confida un volontario - per garantire due piatti caldi a ciascuno di loro, per questo ora più che mai è importante sostenere in qualunque modo la nostra opera”. Ai pasti affianca progetti di scolarizzazione e corsi professionali: sei giovani rifugiate hanno appreso la lavorazione di tappeti; altri 11 ragazzi e una mamma seguono lezioni di inglese e turco; un altro gruppetto di 14 persone, tutti giovani, ha voluto iscriversi a lezioni di inglese; si aggiunge poi un micro-progetto per donne, dove imparano a panificare per poi rivendere al mercato i prodotti. L’obiettivo è favorire l’integrazione nella società turca, perché la migrazione in Europa resta utopia e il ritorno in Afghanistan equivale a una condanna a morte.
Intanto la Turchia, alle prese con una gravissima crisi economica e una inflazione a due cifre in progressiva ascesa, ha rafforzato le difese ai confini, soprattutto con l’Iran. Secondo Ankara vi sono almeno 182mila rifugiati afghani registrati nel Paese, cui se ne aggiungono altri 120mila che non rientrano nei canali ufficiali e vivono in condizioni di semi-clandestinità. Sulla questione è intervenuto il presidente Recep Tayyip Erdogan - il cui consenso è ai minimi storici - sottolineando che non vuole trasformare la nazione nel “centro di stoccaggio” per migranti diretti in Europa (in cambio di finanziamenti miliardari, peraltro). Lo scorso anno le forze di sicurezza della provincia di Van hanno bloccato l’ingresso di oltre 120mila migranti, mentre prosegue l’opera di costruzione del muro al confine. Sinora sono stati completati 40 km su un totale di 64 previsti, lungo i quali sorgeranno 103 torri di comunicazione (45) e sorveglianza (58). Le pattuglie hanno arrestato 15mila persone (senza specificare le loro identità o lo status) e 1.904 sospetti trafficanti di vite umane, sequestrando 880 mezzi veicoli e cinque imbarcazioni. Numeri da vendere sul piatto della propaganda politca, dietro ai quali si cela una delle tante emergenze umanitarie del pianeta.
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