Trump, Marine Le Pen e il Medio oriente: il Libano contro muri e divisioni
L’inizio della presidenza Trump ha segnato la “babelizzazione” della società americana. Ciascun Paese riversa il suo odio contro un nemico esterno. La crisi globale attuale ha radici religiose. Al cuore del caos vi è la minaccia jihadista. Laterza guerra mondiale non si vince con i droni, ma usando moderazione e promuovendo l’incontro e il confronto.
Beirut (AsiaNews) - Con l’inaugurazione della presidenza [di Donald] Trump, tutti noi abbiamo sperimentato un momento di “babelizzazione” della società americana. Con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale, questo accadrà presto in futuro a tutte le società. Tutti parlano allo stesso momento, senza capirsi l’un l’altro. Il presidente Trump avrebbe potuto, firmando i suoi provvedimenti, consolare almeno a parole coloro i quali venivano danneggiati e demoralizzati da queste misure, che ci lasciano costernati.
È questa una questione di civiltà, di cortesia, di saper vivere, possiamo chiamarla come vogliamo. Egli avrebbe potuto dire che si trattava “di una misura temporanea”. “Stiamo esaminando - avrebbe potuto aggiungere - nuovi mezzi per appurare che gli immigrati, e noi siamo un popolo di immigrati, non vengano qui per terrorizzarci”. Ma no, invece di usare questo approccio dolce, egli ha firmato un decreto come se avesse tirato un colpo di ping-pong.
Gli altri, quelli che sono si sono sentiti offesi da questo provvedimento, avrebbero potuto, loro, cercare di capire invece di lamentarsi sui giornali, riversando sul nuovo presidente questo fiume di veleni e di cattiverie che contraddistinguono l’egemonia assoluta dei mezzi di comunicazione sulle persone. Cercare di capire e di correggere al bisogno - come ha saputo fare la giustizia - piuttosto che dare libero sfogo a una animosità rivoltante, che fa del male prima di tutto agli stessi americani.
“Uniti vinciamo, divisi perdiamo”. Si è incrinato un ingranaggio. Questo è evidente. Questo fiume di odio ricorda da vicino il brano di Bob Dylan “A hard rain’s a-gonna fall”, che Patti Smith ha cantato a Oslo per consolare la famiglia reale di Svezia per l’assenza dell’autore [nel contesto della cerimonia di assegnazione del Nobel per la letteratura]. La pioggia annunciata in questa canzone degli anni '60, secondo alcuni si tratterebbe di un olocausto nucleare. E può essere equiparata anche al disordine, al caos e alla violenza.
In effetti, nella seconda metà del XXmo secolo, abbiamo sfiorato un conflitto nucleare in occasione della crisi missilistica che ha visto opposti gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica (1962). Si è evitata una guerra per miracolo. Ma il disordine mondiale, l’olocausto sociale, quello non è stato scongiurato. E lo si vede ogni giorno dai bollettini di informazione quotidiani.
Capire l’altro significa organizzare la società in modo tale che l’altro abbia sempre l’occasione di spiegare perché la sua opinione è diversa dalla nostra. Invece, siamo sommersi tutti i giorni da un torrente di odio, di disprezzo, di vergogna, di demonizzazione altrui. E ciascun Paese riversa la sua parte di discorso di odio. In Libano è Hassan Nasrallah che fornisce le più virulenti, prendendo come obiettivi Israele e l’Arabia Saudita.
Infatti, sul piano globale, stiamo assistendo a una vera e propria apocalisse, nel senso proprio di una “rivelazione” rispetto a ciò che Nicolas Berdiaev - e scusate se cito questo filosofo ogni volta che apro la bocca - chiamava “la sanzioni della storia sulla storia”, il crollo di un sistema. Negli Stati Uniti come in Libano, così come in Francia e da molte altre parti, vi è un qualcosa che sembra non funzionare più. La macchina si è imballata e non viaggia, e nessuno sa quale bottone premere per riavviare il motore.
Al cuore dell’attuale caos vi è la minaccia jihadista, che incombe sul mondo. Tutto il pianeta è piombato in una “terza guerra mondiale” non dichiarata, e i cui episodi sono frammentati. Papa Francesco lo ha pensato e detto a più riprese. La formula è stata ripresa ancora di recente da Donald Trump negli Stati Uniti e, in Libano, dal presidente Michel Aoun. Il Libano e gli Stati Uniti, la Francia e la Germania, e molti altre nazioni ancora sono impegnate su differenti fronti nella medesima guerra detta “asimmetrica”, i cui luoghi sono “stati di violenza” piuttosto che dei territori ben definiti, con scontri classici dal fronte, come avviene oggi in Siria, in Iraq, nello Yemen, in Afghanistan, in Mali e in molte altre parti ancora.
Se vi sono ragioni economiche che giustificano la costruzione di un muro fra gli Stati Uniti e il Messico, non vi è alcun dubbio che questa “guerra asimmetrica” è la stessa che ha portato Donald Trump a prendere le sue recenti misure discriminatorie verso i migranti provenienti da nazioni a maggioranza musulmana.
Al presidente Trump come al presidente Aoun, così come a tutti i dirigenti del mondo, va ricordato che la risposta alla grande minaccia jihadista che ha fatto precipitare la crisi attuale non si limita ai posti di blocco della polizia, alla sospensione dei visti, alla costruzione di muri, a una guerra nascosta contro le cellule terroriste dormienti. Essa deve riguardare anche una dimensione umana e spirituale. Per riprendere in mano la situazione, bisogna capire ciò che spinge i jihadisti a trasformarsi in bombe umane. Di fronte alla loro aberrazione spirituale, è necessaria una risposta spirituale, il riferimento a una realtà spirituale.
Per molti dei pensatori contemporanei, la crisi globale attuale ha delle radici di tipo religioso. Essa si riferisce alla “morte di Dio” annunciata da Nietzsche nel XIXmo secolo, ovvero alla scomparsa della pertinenza della fede religiosa come modo di organizzare la realtà e lo spirito; e ancora, al divorzio irreversibile fra fede e ragione, alla rottura dei legami fondanti fra due sfere che devono restare autonome, ma non indipendenti.
Tuttavia, dai tempi di Dostojevski e ancor prima di Kierkegaard, un Occidente capace di riflettere avrebbe potuto cogliere i segnali rivelatori di questa apocalisse. Lo scrittore russo li riassumeva in questa frase emblematica: “Se Dio è morto, tutto è lecito”. Ma è soprattutto nel corso del XXmo secolo che questa apocalisse si è mostrata in tutta la sua grandezza.
Il desiderio di indipendenza della ragione in rapporto alla fede ha suonato la campana a morto di qualsiasi scala morale a favore dell’utilitarismo, e consegnato l’essere umano ai capricci del mercato, alla regola esclusiva e unica del profitto e della comodità. I prezzi calano? Distruggiamo i raccolti. In troppi sulla terra? Distruggiamo i feti. Troppe costrizioni nelle religioni? Godiamo senza freno. Qualsiasi scienza antropologica, senza la quale l’essere umano non capirebbe chi è, non è in grado di cogliere il conflitto spirituale che si combatte e la posta in palio: la frantumazione, la demistificazione, l’oscurantismo.
In Libano, dopo Emmanuel Macron ecco sbarcare Marine le Pen. La leader del Fronte nazionale si muove da una zona dove infuria la “guerra asimmetrica” ad un’altra. In Francia, la guerra ha mietuto delle vittime a Nizza, Reims, Lione, Parigi. Da noi, gli ultimi morti si sono registrati nel contesto di un attacco a un locale notturno a Istanbul (Turchia, la notte di Capodanno). Speriamo che la candidata alle presidenziali francesi non commetta l’errore comune di tenere un discorso identitario e di rivolgersi ai “cristiani d’Oriente”. Bisognerà, in questo caso, risponderle come abbiamo fatto con Trump, che voleva dare loro priorità per quanto concerne l’immigrazione: “No grazie! Dio pensa a noi!”.
Diciamo di no, perché questo sarebbe unirsi al “dar al harb”, al campo di battaglia. Vorrebbe dire alimentare la discriminazione e l’estremismo. La vera forza del Libano, per la quale abbiamo pagato caro il diritto di poterlo affermare, non è l’estremismo, ma la moderazione, l’apertura all’altro, al dialogo. È mediante la moderazione, e non con l’uso dei droni, che si potrà vincere la terza guerra mondiale.