11/03/2009, 00.00
LIBANO
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Tribunale internazionale Hariri, specchio e risposta ai mali della società libanese

di Fady Noun
Il processo è il primo passo verso la “liberazione” di una nazione ancora “in cerca di una identità propria”. Il procuratore Bellamare chiede la fine del muro di omertà e invita la gente a parlare. La lotta dei libanesi non deve limitarsi alla sentenza del tribunale, ma continuare anche se non verranno condannati i colpevoli.

Beirut (AsiaNews) – Al di là dell’interesse che suscita nella maggioranza dei libanesi, oltre alla promessa della fine dell’impunità, il Tribunale speciale per il Libano – chiamato a giudicare gli assassini dell’ex premiere Hariri – può servire da cartina di tornasole dei mali sociali, dell’ipocrisia, del terrore segreto che si cela nella società libanese e come punto di appoggio a una lotta di emancipazione e di liberazione nazionale, che è ancora in cerca di una identità.

Il procuratore Daniel Bellamare che – secondo il diritto anglosassone – ha assunto a partire dal primo marzo anche l’incarico di capo della commissione di inchiesta, l’ha evocato in pubblico, in occasione del trasferimento dei fascicoli di inchiesta a l’Aja. Egli ha augurato che questa nuova tappa del lavoro spinga le lingue a sciogliersi. Bellamare ha lasciato intendere che alcuni libanesi sanno e spera che finiranno per rivelare ciò che sanno al Tribunale, tranquillizzati dall’esistenza di un sistema a protezione dei testimoni e dalle udienza a porte chiuse.

Perché quegli attentati sono stati commessi da una reticolo di persone assai concrete. Gli “attentati senza volto” che hanno sconvolto il Libano, tra il primo ottobre 2004 con il tentativo di eliminare Marwan Hamadé e il gennaio 2007, data dell’attentato contro il capitano del Fsi Wissam Eid, hanno certamente i segni distintivi di uomini che hanno accettato, per convinzione o tornaconto personale, o persino per forza di cose, a collaborare all’asservimento di un popolo con il terrore, alla decapitazione della sua élite, all’assassinio di una rivoluzione pacifica.

L’esistenza di una rete è dunque inconfutabile, per il solo fatto che esiste un prima e un dopo; per il fatto stesso che gli attentati si sono concentrati in un periodo di tempo ben preciso; perchè essi hanno rivestito due forme differenti e ben identificabili: l’omicidio di personalità di primo piano – quattordici, di cui tre hanno mancato il bersaglio – e gli attacchi notturni contro obiettivi economici, sforzandosi di non provocare vittime fra i civili: 33 in tutto. Tuttavia questi attentati hanno provocato morti e feriti, rispettivamente 96 e 678.

Tenendo presente le diverse proporzioni, si possono fare delle analogie con il processo ai nazisti. A Norimberga, molti di quelli che sono comparsi davanti ai giudici non avevano nemmeno idea dei crimini che avevano commesso. Essi obbedivano agli ordini e non era loro mai balzata in mente l’idea che sarebbero stati processati per aver eseguito i comandi. Alcuni avevano persino l’intima convinzione di servire la loro patria. Senza alcun dubbio, essi non si sentivano colpevoli nella misura in cui aderivano a un sistema ammesso da tutti. Ma la loro colpevolezza era oggettiva, non soggettiva, anche se, in questo caso, si è potuto parlare di “giustizia dei vincitori”. Perché, in fin dei conti, tutto dipende dalla definizione che si attribuisce alla parola politica: arte del bene comune o appagamento della sete per il potere.

Tenuto conto del numero di attentati commessi in Libano, è dunque impensabile che il segreto non si sia diffuso oltre alla ristretta cerchia degli esecutori. Il Tribunale internazionale nutre la profonda convinzione che vi siano persone che sanno e tacciono. La sfida del Tribunale: farle parlare. La sfida per i mandanti: intimidirli, di modo che continuino a tacere.

In questo senso, il Tribunale internazionale rappresenta per il Libano non solo l’inizio della verità, ma anche quello del coraggio. Un obiettivo da perseguire attraverso vie che non sono sempre frutto di un percorso ragionato, ma resta vivo il desiderio dei libanesi di mettersi infine alle spalle una Repubblica velleitaria, che non smette di rigenerare se stessa.

In alcuni passaggi delle sue lettere, Simone Weil prova in maniera esaustiva “con esempi storici che una politica criminale della forza bruta riesce spesso a eliminare tutte le tracce di una cultura rispettabile, presso un popolo conquistato o colonizzato” e “che, almeno in politica estera, l’aspetto demoniaco dei mezzi utilizzati non impedisce loro di risultare efficaci. Il debole e l’oppresso non sono protetti dal fatto stesso della loro innocenza”. (vedi la biografia di Simone Weil di Georges Hourdin).  

Fra gli scopi del tribunale, uno dei tanti, ma forse anche il più importante, vi è la lotta di liberazione nazionale di cui il Tribunale internazionale, e soprattutto il verdetto, sono il punto di appoggio. Il Tribunale potrà tardare a pronunciarsi, potrà scontrarsi con un crimine perfetto, il suo verdetto potrà deludere. La lotta continuerà. Qualcuno ha detto: “Le cause che muoiono, sono quelle per le quali non muore nessuno”. 

 

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