Tinte Swe: dietro il dramma Rohingya lobby internazionali e regime militare birmano
Yangon (AsiaNews) - Le crescenti “pressioni internazionali” sul Myanmar e la “cattiva gestione” del problema da parte del regime birmano non aiuteranno certo a risolvere il dramma di queste “persone più sfortunate”. Perché sulla vicenda dei boat-people moderni - i musulmani Rohingya dal Myanmar e i lavoratori migranti dal Bangladesh - sono in gioco “mani invisibili, e più forti” a complicare il quadro. È quanto afferma ad AsiaNews Tint Swe, presidente del Burma Center Delhi in India, già rappresentante all'estero della Lega nazionale per la democrazia (Nld), esule birmano di primo piano. Per l’attivista il governo di Naypyidaw “non è interessato al bene del Paese e del suo popolo” a prescindere dalla religione professata. L’unico obiettivo è mantenere il potere in vista delle elezioni del prossimo ottobre. “Se il prezzo da pagare per mantenere il controllo è garantire la cittadinanza a chiunque, a prescindere dalla religione - aggiunge Tint Swe - [i militari] saranno pronti a farlo”.
In questi ultimi giorni oltre 3mila persone, in maggioranza provenienti dalla ex Birmania, insieme a lavoratori migranti del Bangladesh, sono stati soccorsi nel mare delle Andamane e al largo delle coste di Indonesia, Malaysia e Thailandia. Un dramma acuito dal giro di vite imposto da Bangkok - vero e proprio crocevia della tratta - sul commercio di vite umane, dopo la scoperta di una fossa comune nei pressi del confine con la Malaysia in cui erano sepolti decine di Rohingya.
La situazione è quindi precipitata con la politica dei respingimenti adottata - e sconfessata in un secondo momento, al termine di un vertice fra ministri degli Esteri - da Jakarta e Kuala Lumpur. Per trovare una risposta comune all’emergenza, il 29 maggio prossimo a Bangkok si terrà un vertice straordinario dei Paesi Asean, allargato ad altre nazioni coinvolte nel traffico di vite umane.
Tuttavia, per l’attivista ed esperto di vicende birmane l’Asean “non possiede l’autorità" politica e morale per intervenire nella vicenda. “Vi sono due elementi - afferma Tint Swe - che complicano ancor più il quadro: il governo birmano stesso e la comunità internazionale, nelle mani di una lobby che persegue solo una parte degli interessi in ballo”. Per quanto concerne la politica interna, i militari sfruttano il problema Rohingya in chiave nazionalista per acquisire maggiori consensi in vista delle elezioni di fine anno. “Di recente - racconta - il Parlamento ha approvato la controversa legge sul Controllo della popolazione. Tutto ciò che i militari stanno facendo è comprare voti”.
A questo, però, si aggiunge anche una “minaccia esterna” che grava sul Myanmar con il pretesto di difendere i diritti umani della minoranza perseguitata. “La comunità internazionale - avverte - deve capire la reale natura e le ragioni di fondo della questione Rohingya. È giusto lavorare per i diritti umani e per iniziative umanitarie. Ma qui si chiede a una nazione di modificare le proprie leggi sulla cittadinanza, immischiandosi negli affari interni e vi è un altro Stato al mondo - si domanda - in cui sta avvenendo tutto questo?”.
Secondo Tint Swe il vero problema è “il traffico di vite umane”, questa è la “vera sfida” che va affrontata e risolta. “Questi malviventi - aggiunge - sono disposti a trasportare chiunque sia in grado di pagare, a prescindere dal Paese di provenienza e dalla cittadinanza”. Egli nota però che sui media internazionali si parla solo dei Rohingya e del Myanmar, mentre il problema è più diffuso e articolato. E non risparmia critiche all’ipotesi di rispedirli dai luoghi di provenienza, perché “è chiaro e lampante" che la Birmania e il Bangladesh “non sono il posto migliore in cui possano vivere. E lasciando da parte il Bangladesh, la Birmania non è certo cambiata [rispetto alle repressioni del passato] come qualcuno vuole far invece credere”.
“Vi sono almeno tre milioni di cittadini birmani di religioni diverse che vivono al di fuori del Paese - ricorda Tint Swe - e oltre l’80% di loro ha lasciato il Myanmar in modo illegale. Ma di questa questione nessuno parla”. L’attivista birmano non risparmia infine critiche a nazioni della regione a larga maggioranza musulmana, fra cui le stesse Indonesia e Malaysia, che “hanno ignorato a lungo” il problema “della immigrazione musulmana” sul proprio territorio. In India e Pakistan, aggiunge, “solo i gruppi estremisti” sono intervenuti a difesa dei Rohingya. E anche altre nazioni Asean a maggioranza islamica, come il Brunei, “non hanno fatto molto” per aiutare i boat-people musulmani e i migranti irregolari della regione.
27/05/2015