Teheran: dietro i missili a Israele, la ‘guerra’ degli ayatollah alle donne
In concomitanza con l’attacco del 13 aprile, il capo della polizia ha lanciato la “campagna” contro le “violazioni alla legge sull’hijab”. Dal carcere la Nobel per la pace Mohammadi parla di “assalto generalizzato” a colpi di stupri, abusi, torture. Le autorità “silenziano” i telefoni di quante protestano. Scioperi nelle università, in aumento anche i femminicidi.
Teheran (AsiaNews) - I riflettori della comunità internazionale erano puntati sull’attacco a colpi di droni e missili lanciati da Teheran verso Israele, che hanno fatto temere un’escalation del conflitto in Medio oriente verso una guerra aperta fra Repubblica islamica e Stato ebraico, un rischio ancora attuale. Tuttavia negli stessi giorni e nel silenzio generale, all’interno dei confini dell’Iran veniva lanciata una vasta repressione del dissenso, con un obiettivo primario: le donne e la loro battaglia in atto da oltre un anno e mezzo contro l’hijab e le rigide norme in tema di costumi imposti dagli ayatollah all’indomani dell’uccisione di Mahsa Amini per mano della polizia della morale, inasprite nell’ultimo periodo. Per silenziarle, come riferisce IranWire le autorità “silenziano” smartphone e dispositivi mobili di quante “osano” denunciare la norma sull’obbligo del velo.
In prima fila contro la campagna di repressione - dalla sua cella nel carcere di Evin - la Nobel per la pace Narges Mohammadi, che parla di “assalto generalizzato contro le donne” fatto di arresti, violenze sessuali e violazioni dei diritti umani. Nel messaggio riporta la vicenda di Dina Qalibaf “appena arrivata nella sezione femminile della prigione con lividi visibili e una storia straziante di abusi” perpetrati agli agenti. Le aggressioni in atto, spiega, “non sono una dimostrazione di potere, ma un atto disperato di un regime tirannico” in un contesto di “guerra a tutto campo per le strade” contro il genere femminile.
Parole che trovano conferma nelle cronache concitate del 13 aprile, giorno dell’attacco degli ayatollah allo Stato ebraico: nelle stesse ore, infatti, il capo della polizia di Teheran Abbasali Mohammadian compariva sulle tv nazionali per annunciare la campagna. “A partire da oggi - affermava - la polizia della capitale e di altre città attuerà misure contro quante violano la legge sull’hijab”. Nel frattempo centinaia di agenti - comprese forze della sicurezza in borghese - pattugliavano le strade, con video rilanciati sui social di arresti di donne “vestite in modo improprio” e trascinate sui furgoni della polizia.
La campagna registra critiche persino all’interno della classe dirigente, con una parte dei politici riformisti che hanno espresso le loro critiche in rete paventando il rischio di una ulteriore spaccatura fra establishment e società civile. “Proprio in un momento in cui la solidarietà è più cruciale che mai, le stesse brutte scene si stanno intensificando con più violenza contro donne e ragazze iraniane! Che politica è questa?” scrive su X, ex Twitter, il riformista Azar Mansouri. L’ex ministro Ali Rabeie aggiunge: “Nel momento in cui gli iraniani si sentono orgogliosi di affrontare Israele, improvvisamente un gruppo (di decisori) spinge la società verso lo scontro con l’establishment”. Altri sospettano che dietro il giro di vite vi sia una ragione politica, con l’obiettivo di infondere paura per impedire possibili proteste o dissenso verso il rischio di una guerra aperta con Israele.
La ferocia degli ayatollah a colpi di stupri, torture e abusi sessuali emerge anche da un rapporto pubblicato in questi giorni da Human Rights Watch (Hrw), focalizzato sulla repressione attuata fra il 2022 e il 2023 delle manifestazioni pro Mahsa Amini, con in prima fila le donne. L’ong ha indagato gli abusi subiti da almeno 10 detenute fra settembre e novembre 2022, appartenenti alle minoranze curda, azera e beluchi conditi da stupri da parte delle forze di sicurezza e del personale carcerario. E ancora torture per estorcere confessioni di reati mai commessi, equiparabili a una “arma di ingiustizia” come la definisce la responsabile Iran di Hrw Nahid Naghshbandi, che colpiscono soprattutto “le minoranze etniche”. Una donna curda ha raccontato la violenza sessuale subita nel novembre 2022 da due uomini dell’intelligence, mentre un’agente donna la tratteneva.
Gli attacchi sistematici alle donne riguardano ogni aspetto della vita pubblica e privata, dalle aule scolastiche alle mura domestiche: nei giorni scorsi oltre 200 studentesse dell’università Amir Kabir di Teheran hanno scioperato, rifiutandosi di frequentare le lezioni per protestare contro le recenti azioni repressive degli agenti di sicurezza per presunte violazioni al codice di abbigliamento. In prima linea gli iscritti e le iscritte alle facoltà di ingegneria e matematica, ma sono molte le lezioni interrotte, da medicina a chimica, per una protesta che rischia di estendersi ad altri atenei della capitale. Infine i femminicidi, ultimo caso la scorsa settimana a Teheran dove il marito ha ucciso la moglie al termine di una lite familiare, denunciandone poi la scomparsa nel tentativo sviare le indagini. Una vicenda tutt’altro che isolata: gruppi pro diritti umani riportano almeno 50 omicidi negli ultimi 100 giorni, il 20% dei quali attribuiti a “delitti d'onore”. Il quotidiano Shargh, in un rapporto basato su statistiche ufficiali relative al 2023, conta almeno 165 femminicidi per mano di un parente maschio della famiglia, 41 dei quali avvenuti nella capitale.