Suor Lissy: Fare missione tra i poveri è riempire stomaci e cuori affamati di Cristo
La suora fa parte della Congregazione delle Figlie di San Paolo. Dapprima ha imparato a “fare missione tra i ricchi attraverso i media”. In seguito l’incontro con i poveri pescatori in Kerala. Poi, nel 2008, inizia a seguire mons. Thomas Menamparampil nei villaggi della giungla in Assam. “Il missionario di villaggio riesce ad entrare nell’agonia delle masse che sono come le pecore senza un pastore”.
Guwahati (AsiaNews) – “Fare missione tra i poveri vuol dire accudire i loro bisogni fisici ed economici. I missionari aiutano a riempire stomaci affamati, perché Gesù si prende cura anche di quelle necessità. Questi missionari ottengono risultati immediati nella gioia delle persone che aiutano”. Lo afferma suor Lissy Maruthanakuzhy, membro della Congregazione delle Figlie di San Paolo in India. La sua è una testimonianza vivace, spontanea, della sua esperienza missionaria. Il primo impatto è stato con i poveri pescatori del Kerala, il suo Stato d’origine. In seguito i superiori hanno scelto per lei la giungla in Assam, al seguito di mons. Thomas Menamparampil, arcivescovo di Guwahati e noto operatore di pace in India. Abituata a “fare missione tra i ricchi”, l’incontro con le difficoltà quotidiane nei villaggi è stato per lei uno shock. Che però l’ha portata a riscoprire il significato stesso del messaggio di Cristo, che invita a mettersi al servizio degli ultimi. Di seguito il suo commento (traduzione a cura di AsiaNews).
È stato il desiderio di diventare missionaria che mi ha spinto verso le Figlie di San Paolo a Mumbai, in India occidentale, più di 40 anni fa.
Lì, attraverso la teoria e la pratica, ho imparato le prime lezioni di un missionario nei media. Ci è stato insegnato che la nostra missione era proclamare il Vangelo attraverso i media e le varie forme di comunicazione.
I nostri corsi includevano alcuni tirocini nel settore della carta stampata. Mentre i miei compagni si occupavano di comporre testi per la stampa, io revisionavo o maneggiavo una macchina che piegava le pagine stampate di un libro. “Ogni pagina può salvare un’anima”, ripeteva il nostro coordinatore, un modo per instillare in noi concentrazione e dare importanza a ciò che stavamo facendo.
Ci è stata anche spiegata l’importanza dell’arte, dei film e del materiale audiovisivo.
I nostri docenti ci dicevano di essere pazienti e ricordavano le parole del nostro fondatore, il beato don Giacomo Alberione, un sacerdote italiano: “Non vedremo mai il frutto della missione”.
Anche se ero contenta e felice di tutto ciò che facevo, il mio cuore era ancora trainato dal desiderio di essere una missionaria che lavora tra i poveri in posti sconosciuti.
L'ironia della sorte ha voluto che per introdurmi a questa missione, sono stata mandata in Kerala, il mio Stato natio nel sud dell’India. Nella capitale Trivandrum (ora Thiruvananthapuram) ho avuto la possibilità di visitare le famiglie dei pescatori nelle aree costiere, all’interno del programma di rinnovamento [spirituale] della parrocchia.
Lì mi sono imbattuta nella povertà estrema che ha sfidato la mia esistenza come missionaria. Mentre la nostra missione nei media era rivolta ai bisogni di élite ed intellettuali, i missionari tra i poveri si occupano di necessità fisiche ed economiche. Essi aiutano a riempire stomaci affamati, perché Gesù si prende cura anche di quelle necessità. Questi missionari ottengono risultati immediati nella gioia delle persone che aiutano.
Le visite alle case mi hanno spinto a trascorrere con i bisognosi anche il tempo libero.
Ora credo che tutto questo fosse opera di Dio, che stava preparando per me una missione ancora più grande.
Il momento è arrivato quando la [superiora] provinciale mi ha chiesto di lavorare con un arcivescovo missionario nel nord-est dell’India. Non avevo mai visto di persona mons. Thomas Menamparampil, arcivescovo di Guwahati, ma lo conoscevo fin da quando avevamo pubblicato uno dei suoi libri. Ho chiesto alla mia superiora cosa avrei dovuto fare. Lei mi ha risposto: “Dovrai accompagnare l’arcivescovo durante le sue visite nei villaggi”.
Avevo già sentito parlare del famoso mantra dell’arcivescovo per i missionari in Asia: “Sussurrare [il Vangelo] all’anima dell’Asia. Non una rumorosa proclamazione della fede, ma un colpetto gentile al cuore del tuo prossimo in silenzio e con amore”.
Quando mi sono unita a lui nel maggio 2008, ho imparato che è questo ciò che egli fa mentre visita i villaggi. Se devo essere onesta, a me non piace viaggiare ma ero desiderosa di partecipare ai viaggi dell’arcivescovo per capire cosa faceva con gli abitanti dei villaggi.
Da qui sono partiti i miei due viaggi – uno all’interno dei villaggi, l’altro all’interno di me stessa.
Il debutto di una missionaria
L’arcivescovo mi ha detto che i suoi viaggi gli davano l’opportunità di conoscere i suoi sacerdoti sul luogo di lavoro e gli abitanti dei villaggi nelle situazioni di vita quotidiana.
Il mio viaggio nei villaggi ha preso il via il giorno dopo il mio arrivo. Siamo partiti alle 6.30 di mattina e rientrati dopo la mezzanotte. Mentre mi salutava all’ingresso del convento, l’arcivescovo Menamparampil mi ha detto di farmi trovare pronta per il pomeriggio successivo, quando ci saremmo dovuti incontrare per andare in missione nella direzione opposta.
Ero così stanca che ho saltato la messa della mattina. All’uscita della funzione ho incontrato le consorelle che mi hanno riferito: “L’arcivescovo Thomas ha chiesto di te”.
Sono stata assalita dalla vergogna. L’arcivescovo, che era molto più anziano di me, aveva celebrato la messa alle 6.30 del mattino, e di sicuro era molto più stanco di quanto non fossi io dopo il lungo viaggio del giorno precedente. Riuscivo ad immaginare un sorriso appena accennato sul suo volto, mentre pensava alla debolezza del missionario.
Quel giorno ho promesso a me stessa che non avrei mai ripetuto quel comportamento. L’arcivescovo, che ha trascorso quasi 60 anni come missionario nel nord-est dell’India, mi ha insegnato che ciò di cui ha più bisogno un missionario sono determinazione e impegno. Nessun ostacolo deve fermare una persona dedita al suo compito di proclamare Cristo ai poveri.
Il secondo giorno è cominciato con me che ringraziavo il prelato per la sua comprensione. Mi aveva concesso abbastanza tempo per riprendermi per un altro noioso viaggio. Lungo la via, egli si è fermato in vari luoghi di missione – per prima cosa incontrava suore e sacerdoti che di rado ricevono visite, e solo in seguito arrivava il momento per rifocillarsi.
Mentre i sacerdoti e le suore si avvicinavano uno alla volta, l’arcivescovo era più preoccupato per me, perché era la mia prima volta su un terreno di dura missione. Ma io ero già diventata una missionaria “dura”, o almeno così credevo.
Siamo arrivati a destinazione intorno alle 5 del pomeriggio. Dopo una breve rinfrescata, insieme ad un parroco ci siamo incamminati verso un villaggio nell’interno. Non c’erano strade asfaltate, il nostro veicolo oscillava lungo il percorso accidentato. Ci siamo lasciati alle spalle foreste e villaggi. Solo in seguito il parroco mi ha informato che in quei villaggi abitavano militanti clandestini.
Egli poi ha domandato al prelato: “Eccellenza, appena due giorni fa lei ha soggiornato in un hotel a cinque stelle e ora si trova in questa giungla. Come fa ad affrontare tutto questo?”. Il sacerdote sapeva che mons. Menamparampil era appena rientrato da un incontro internazionale a Roma.
“Questa è la nostra vita. Noi siamo missionari”, ha risposto semplicemente, mentre la jeep scivolava lungo una risaia e io che mi chiedevo se saremmo mai giunti a destinazione.
Alla conquista del mondo
All’improvviso il nostro sguardo si è aperto su una casa con il tetto di paglia e poche persone lì vicino.
Dopo aver fermato la macchina, il guidatore si è rivolto a me chiedendomi: “Come va la sua schiena?”. Ero stupita che si preoccupasse per la mia schiena. Ma quella notte sono stata abbastanza bene e sono riuscita a riprendermi. Ero guarita grazie alla mia volontà di avventurarmi nell’ignoto per il bene di Gesù.
L’arcivescovo mi ha detto che simili miracoli sono parte della vita missionaria. I miracoli non avvengono solo con la guarigione del malato o con la moltiplicazione dei pani. Essi si compiono anche affinando le percezioni, trasformando i cuori o aprendo gli occhi a significati più profondi.
Celebrare la messa in quella cappella di villaggio così minuscola e con il tetto di paglia è stato sorprendente. Mi sentivo così a casa in quel caldo maggio, seduta tra gli abitanti del villaggio nei loro vestiti logori. All’offertorio essi hanno offerto riso, verdure e un pollo vivo. La gioia che ho provato quella notte è ancora viva nella mia memoria. Mi sentivo come se avessi conquistato il mondo. Nessuno nella mia comunità aveva avuto questa esperienza unica.
Dopo la messa ci sono stati dei programmi culturali e solo intorno alle 10.30 di sera abbiamo raggiunto la casa del catechista per la cena. Notando il mio imbarazzo per il cibo senza sale, l’arcivescovo mi ha detto: “Con il passare del tempo i missionari sviluppano uno stomaco missionario che li aiuta ad adattarsi a qualunque cosa”.
Quella è stata la seconda lezione della mia vita missionaria in due giorni.
“Sarei mai stata in grado di sviluppare uno ‘stomaco missionario’?”, domandavo a me stessa mentre camminavo assonnata lungo le risaie dopo cena, verso il luogo dove dovevamo trascorrere la notte.
Ad un certo punto mi è venuto in mente che serviva più di uno “stomaco missionario” per sopravvivere in quei villaggi. Per rispondere al richiamo della natura, mi sono guardata attorno alla ricerca di un bagno, ma non ce n’erano. Il campo aperto è venuto in mio soccorso.
Dato che quel posto non aveva un gabinetto, ho deciso di svegliarmi presto la mattina. Ma ahimè! Perfino alle 4.30 del mattino il sole era già alto e gli abitanti del villaggio nei campi con il loro bestiame. Perciò ho dovuto attendere fino alle 8.30, quando siamo tornati in parrocchia, per poter utilizzare il bagno nuovo di zecca – una fossa con due caschi di banana collocati sopra di essa.
Ho apprezzato il fatto di essere così a contatto con la natura, raccogliere acqua fresca per lavarmi. “Va bene per un giorno o due”, ho detto a me stessa, ma quei missionari vivevano da anni in quella situazione.
Non è facile spiegare i sacrifici che i missionari compiono per mantenere saldo nella fede il proprio popolo. Sono disposti a camminare per chilometri pur di insegnare il catechismo e preparare le persone alla Prima Comunione o alla Confermazione. Vivrebbero per una settimana in una baracca di una sola stanza insieme ad una famiglia, rinunciando a lavarsi per mancanza di acqua.
L’agonia delle masse
A poco a poco, con le visite ai villaggi, mi sono lentamente convertita da missionaria di città a missionaria di villaggio.
Ancora una volta, è stato mons. Menamparampil a spiegarmi la gioia del missionario di villaggio in mezzo al disagio. Ciò che attraeva le persone a Cristo non era la sua eloquenza toccante, ma la capacità di entrare nell’agonia delle masse che erano come “pecore senza un pastore”, incapaci di comprendere il significato della propria condizione di dolore.
I viaggi mi hanno aiutato a capire quanto i missionari di altre culture si adattino allo stile di vita locale.
La voce dell’arcivescovo risuona nelle mie orecchie: “Un forte senso di missione dà significato alla vita di ognuno. Sei in grado di affrontare le difficoltà fino a quando scorgi il senso di ciò che fai”.
L’unica cosa che io posso dire è “Amen”.
*Suora della Congregazione delle Figlie di San Paolo