Stati Uniti e Cina: due fragilità contro i diritti umani
Roma (AsiaNews) - Siamo tutti scontenti per il Rapporto del Dipartimento di stato Usa sui diritti umani in Cina.
Nella sua pubblicazione annuale, gli Stati Uniti hanno “premiato” la Repubblica popolare togliendola dalla lista dei peggiori violatori dei diritti, ma sottolineando che essa rimane uno “stato autoritario” che rispetta i diritti umani in modo molto “povero”.
Non è piaciuto anzitutto a Pechino, che da ieri lancia strali contro “i nemici della Cina” che prendono l’occasione delle Olimpiadi per aumentare le loro critiche e “politicizzare” i Giochi. Qin Gang, portavoce del Ministero degli esteri ha anche suggerito agli Usa di “smettere di posare come difensore dei diritti umani”, di guardare alla misera difesa dei diritti umani nel loro Paese e di “non intromettersi negli affari interni degli altri Paesi”.
Il Rapporto non è piaciuto nemmeno a tutte le organizzazioni che lavorano per i diritti umani e anche a noi di AsiaNews. Meglio: non ci è piaciuta la conclusione. Il lungo dossier sulla Cina riporta le molte violazioni che noi stessi documentiamo sulle pagine del nostro sito: controlli, arresti, torture, oppressione delle minoranze, sparizioni di vescovi, morti in detenzione, attacchi contro contadini, operai e sindacati autonomi. Tutto questo avviene pari pari in Birmania. Eppure il Mynamar è considerato un “sistematico” oppressore dei diritti e appare nella lista dei “top ten”; la Cina invece è “uno Stato autoritario” dove semplicemente “le riforme politiche e democratiche non tengono il passo con le riforme economiche” (J. Farrar della Segreteria di Stato Usa).
Questo atteggiamento morbido verso la Cina in transizione sulle riforme era tipico fino ad ora di molte Camere di commercio, che per oltre 25 anni hanno continuato a sperare che, siccome la Cina si apriva al mercato, prima o poi si sarebbe aperta anche ai diritti umani. A fianco a questo, vi è l’atteggiamento ottimista e comprensivo di chi attribuisce tutte le violazioni ai capi locali, mentre la leadership centrale è “buona, onesta, desiderosa di cambiare”. Un cristiano sotterraneo cinese, il cui vescovo è in prigione, ha definito questa posizione una pia “illusione”: in Cina, egli spiega, “non succede nulla senza l’approvazione del governo centrale”.
Come mai gli Stati Uniti quest’anno si sono accodati a questo stile? Possiamo fare solo delle ipotesi. I media sottolineano che questa “liberatoria” permetterà a George W.Bush di partecipare alle Olimpiadi di Pechino senza subire gli attacchi delle organizzazioni per i diritti umani. A noi pare che il Rapporto e la stessa presenza di Bush alle Olimpiadi siano il risultato della fragilità finanziaria in cui stanno scivolando gli Stati Uniti. La crisi dei crediti negli States crea amicizia con chi, come la Cina, ha possibilità di comprare il debito Usa grazie alle enormi riserve di valuta estera nelle casse di Pechino. Allo stesso tempo, la fragilità sociale in cui versa la Cina – con rivolte quotidiane, inquinamento, povertà abissali e ricchezze vertiginose – ha bisogno di una tregua, soprattutto in vista delle Olimpiadi, quando la Repubblica popolare subirà un profondo check-up da parte di visitatori e media.
Non riusciamo a prevedere se queste due fragilità, sostenendosi a vicenda, riusciranno a mantenersi in piedi. Spiace soltanto che accodandosi a chi crede che le riforme economiche siano l’unica cosa necessaria, gli Stati Uniti soffocano tutti i tentativi di rinnovamento che da più di 30 anni animano il popolo cinese.