Seoul, il ritorno amaro dei 'piccoli fantasmi' thailandesi
Dopo le restrizioni imposte dalla pandemia ha ripreso a crescere in Corea del Sud il fenomeno dei lavoratori in nero provenienti dalla Thailandia. Effetto di un mercato del lavoro che ha bisogno di manodopera per l'industria e l'agricoltura, ma per ragioni politiche impone vincoli rigidissimi all'immigrazione che diventano un incoraggiamento alla clandestinità (e agli abusi).
Seoul (AsiaNews) - Sembrava che la pandemia e la lotta all’irregolarità e agli abusi avessero di fatto cancellato il fenomeno, invece a Seoul i “piccoli fantasmi” sono tornati ad essere un numero consistente. Con questo termine vengono indicati i thailandesi che, con il miraggio di salari di molte volte superiori a quelli disponibili in patria, tentano la via della migrazione in un Paese, la Corea del Sud, che ha bisogno di alimentare di forza-lavoro le sue industrie, le sue produzioni agricole e un’ampia gamma di servizi.
Non sono bastate le campagne di sensibilizzazione, il rientro dei migranti detenuti per il mancato rispetto delle leggi in materia dell’immigrazione o del lavoro, nemmeno la linea dura della polizia dei due Paesi: appena le frontiere si sono riaperte, è ripreso il flusso di thailandesi verso il Paese dell’Estremo Oriente, spesso in tour organizzati da cui poi alcuni si separano lasciando scadere il visto turistico e restando in balia di sfruttamento, sottoccupazione e abusi. A subirli sono soprattutto le donne, meno richieste per i lavori pesanti e usuranti abitualmente delegati agli immigrati e quindi più facilmente attirate nella zona d’ombra della clandestinità e indirizzate anche verso attività che implicano prestazioni di carattere sessuale.
Secondo i dati diffusi dalle autorità di Seoul, al 31 gennaio scorso vi erano in Corea del Sud 2,41 milioni di lavoratori immigrati. Tra questi 195mila cittadini thailandesi, poco meno della metà dei quali stimati senza documenti idonei alla permanenza e all’impiego.
La severità delle regole imposte dalla parte sudcoreana contribuiscono a spiegare perché molti thailandesi rischino detenzione, espulsione e iscrizione nella “lista nera” degli indesiderati anziché accedere regolarmente al mercato del lavoro della Corea del Sud, secondo quanto previsto dagli accordi intergovernativi. Tra i requisiti richiesti per l’inserimento in un elenco da cui i datori di lavoro possono scegliere vi sono un’età tra i 18 e i 39 anni e un test di lingua coreana obbligatorio. E dopo due anni, se non vengono chiamati, devono comunque ripetere la procedura.
D’altra parte ai potenziali datori di lavoro sudcoreani è richiesto di accedere alla lista solo se non sono stati in grado di garantirsi dei lavoratori connazionali e possono documentarlo; come pure devono essere in grado di dimostrare la propria correttezza, insieme alla sicurezza e alla qualità dei luoghi di lavoro.
Nonostante questo le imprese che fanno regolare richiesta di lavoratori dalla Thailandia spesso nei fatti non rispettano ugualmente la legge; a questo poi si aggiungono organizzazioni e aziende che attraverso il web reclutano direttamente manodopera straniera a costi che variano tra l’equivalente di 4.000 e 5.000 euro. Un debito pesante per un thailandese che - accresciuto costantemente dalle spese di vitto e alloggio - richiede anni per essere saldato. Questo lascia i lavoratori nelle mani di datori di lavoro senza scrupoli, con la minaccia costante di essere cacciati dall’azienda o di essere denunciati alle autorità.
Foto: Flickr/Tigersight