Sarà cruciale il voto del 15 dicembre per l’Assemblea degli esperti
Teheran (AsiaNews) – Per lo Stratford Global Intelligence potrebbero essere il voto più cruciale della storia della Repubblica iraniana le elezioni del prossimo 15 dicembre per la Assemblea degli esperti. Gli 86 mullah che la compongono hanno il potere di scegliere, ed in teoria anche di destituire, la Guida suprema della rivoluzione, che è il vero capo dello Stato.
Pur riunendosi solo due volte l’anno – in genere nel centro religioso di Qom, ma a volte anche a Mashad, altro luogo di pellegrinaggi, o a Teheran – l’Assemblea in realtà pesa, direttamente o indirettamente, sulle decisioni strategiche del Paese, pur non occupandosi degli affari correnti. A dare maggiore peso alle prossime elezioni, strutturalmente molto poco democratiche, è da un lato il mistero che circonda le condizioni di salute dell’attuale Guida, Ali Khamenei, 67 anni, che secondo alcune voci avrebbe un cancro, e dall’altro il fatto che l’attuale presidente dell’Assemblea, l’ayatollah Ali Meshkini, ad 80 anni sembra intenzionato a lasciare.
Eletti per otto anni, gli 86 componenti dell’Assemblea - che una volta eletta non è sottoposta ad alcun controllo ed è dunque una sorta di Consiglio di reggenza - potrebbero dare il via ad una riforma del regime. I 144 candidati sono i superstiti dei 495 che si erano proposti. Come per le elezioni presidenziali, i loro nomi sono stati “scremati” dal Consiglio dei guardiani, composto di sei teologi nominati dalla Guida e sei giuristi proposti dalla magistratura ed approvati dal Parlamento. Eliminati tutti i non religiosi e tutte le donne, alcuni candidati “dubbi” per essere ammessi hanno dovuto superare un esame di diritto islamico.
I 144 ammessi rappresentano un po’ più di due candidati per ogni seggio. A votarli potranno essere solo i musulmani: cristiani, ebrei e zoroastriani non possono né votare, né essere eletti. Ad affrontarsi due fazioni, entrambe guidate da leader di dubbia reputazione, che aspirano alla successione di Khamenei:
- I “pragmatici”, che fanno capo all’ex presidente Hashemi Rafsanjani, recentemente coinvolto dai giudici argentini negli attentati antiebraici accaduti nel loro Paese e indicato dalla magistratura svizzera nella vicenda dell’assassinio di Kazem Radjavi. Considerato l’uomo più ricco dell’Iran, ha perduto le ultime elezioni presidenziali a causa della sua fama di affarista e corruttore;
- Gli “ultraconservatori” che seguono l’ayatollah Mesbah Yazdi. Ritenuto da alcuni, ma la cosa sembra eccessiva, guida spirituale dal presidente Ahmadinejad, Yazdi vuole l’irrigidimento nell’applicazione delle regole islamiche, esalta l’uso della forza e vorrebbe, ad esempio, lo sterminio dei bahai (in quanto eretici) e la riduzione in schiavitù dei non-musulmani catturati in occasione della futura guerra santa.
I “riformatori” non esistono più (o non ancora) come tali: l’ex presidente Khatami si è trovato un ruolo girando il mondo (da Washington ad Istanbul) presenta una immagine positiva del regime ed evita critiche. Gli altri, come l’ex candidato alla presidenza e presidente del Parlamento, Mehdi Karroubi e l’ex capo negoziatore del dossier nucleare Hassan Rowhani, si sono uniti a Rafsanjani in una coalizione anti-Ahmadinejad. A favore del quale è schierato il capo del Consiglio dei guardiani, l’ayatollah Ahmad Jannati, l’uomo che ha definito “ispirata” la lettera del presidente iraniano a Bush.
Per gli elettori iraniani, che non conoscono i candidati e che non assisteranno ad una confronto su programmi, si tratta di scegliere tra un estremista rivoluzionario, emblema del gruppo al potere e la “opposizione” rappresentata da Rafsanjani. Votare contro Rafsanjani, come è stato in occasione delle elezioni presidenziali del 2005, significherebbe non solo approvare la linea del governo di Ahmadinajad, ma anche fare posto ad una dei mullah più estremisti del regime. Per il quale sarebbe positiva un’alta partecipazione al voto ed un buon risultato per gli “ultraconservatori”.
Opposta la lettura di una scarsa partecipazione o di un buon risultato per Rafsanjani. Opposte anche le conseguenze che il risultato elettorale può avere sulle questioni politiche internazionali, dal nucleare all’Iraq, dal Libano alla Palestina. Già nel 1995, Rafsnajani si era guadagnato la fama di pragmatico lasciando intendere una possibile apertura del suo Paese, anche verso gli Usa. Yazdi, invece, cerca il confronto: all’inizio di quest’anno ha sostenuto che sarebbe lecito l’uso delle armi nucleari contro gli Stati Uniti. Sul piano interno, dall’economia ai diritti dell’uomo, ci sono da attendersi pochi sviluppi positivi: un successo di Yazdi farebbe però prevedere un ulteriore progresso delle tendenze più estremiste del regime.