Sacerdote irakeno: Lo Stato islamico ha distrutto la fiducia dei cristiani nei musulmani
Erbil (AsiaNews) - Dopo aver subito in prima persona le violenze delle milizie dello Stato islamico, i rifugiati cristiani hanno "perso la fiducia" e si chiedono, "come sia possibile convivere con i musulmani"; anche con quanti, un tempo, erano "vicini di casa e, nei giorni successivi alla fuga, hanno depredato le loro case e si sono impossessati dei loro beni". È quanto racconta ad AsiaNews p. Dinkha Issa, 50enne sacerdote originario di Mosul, appartenente all'Ordine antoniano di Sant'Ormisda dei caldei. Egli è amministratore apostolico della diocesi (vacante) di Aqra, fra Erbil e Duhok, e si occupa dei profughi che hanno abbandonato Mosul e i villaggi cristiani della piana di Ninive - Tilkief, Karemles, Qaraqosh - in seguito all'avanzata dei jihadisti. Il villaggio di Mella Baruan, dove vive, era formato da 70 famiglie; in questi mesi la popolazione è più che raddoppiata: almeno 80 nuovi nuclei, più di 400 persone che hanno stravolto la quotidianità dell'area. Altre 50 famiglie hanno trovato ospitalità in un villaggio vicino: "Sono arrivati fra il 6 e il 7 agosto - racconta p. Issa - con la seconda ondata di profughi, quando Mosul è caduta nelle mani dei terroristi".
Ancora oggi, a distanza di tempo, la situazione resta difficile; la Chiesa è in prima linea nella distribuzione di cibo, aiuti, generi di prima necessità, coperte per ripararsi da un inverno che comincia a farsi pungente, per il freddo e la pioggia. Le temperature si avvicinano allo zero, in molti vivono in alloggi di fortuna, vi sono tanti problemi quotidiani. "I cristiani soffrono molto" spiega. "Vivono in case abbandonate, fatiscenti, il cibo ogni tanto scarseggia, mancano i soldi per provvedere alle necessità quotidiane di base. La crisi è destinata a durare, non si risolverà in poche settimane".
Le famiglie trascorrono le giornate in un clima di perenne attesa, incerte sul futuro, desiderose - da un lato - di rientrare nelle loro case, ma dall'altro sempre più orientate alla fuga all'estero, al grande salto in Europa, Canada, Australia, da amici o parenti che hanno già lasciato da tempo l'Iraq. "Con l'arrivo dell'Isis - racconta p. Issa - non credono più in una convivenza possibile con i musulmani". I rapporti, gli equilibri sono cambiati ed è evidente che "è venuta meno la fiducia".
In passato, sotto il regime di Saddam Hussein, un governo forte e un esercito saldo garantivano per alcuni aspetti il rispetto della legge e del diritto; non vi erano divisioni di natura confessionale, il regime spegneva sul nascere tensioni e conflitti. Le due guerre promosse dagli Stati Uniti hanno stravolto gli equilibri e fatto deflagrare in tutta la loro portata tensioni etnico-religiose latenti fra sunniti, sciiti, curdi, fra musulmani e cristiani. "Quando non c'è legge, quando non c'è diritto - sottolinea il sacerdote - quando i cristiani diventano vittime, qui nasce il problema". A differenza del Kurdistan irakeno, dove (oggi) la convivenza è possibile, i profughi "non riescono a vedere più una prospettiva analoga a Mosul e nei villaggi della regione. I musulmani li hanno derubati, hanno distrutto i loro oggetti... lo Stato islamico, già attivo nella zona dal 2013 e capace di sfruttare il risentimento verso l'America e il malcontento per la situazione economica, ha cambiato tutto".
Ad aiutare le decine di famiglie sfollate, come nelle altre aree del Kurdistan irakeno in cui hanno trovato rifugio, vi è la Chiesa locale, che ha svolto un "lavoro enorme" pur fra notevoli difficoltà. "Senza la Chiesa - sottolinea p. Issa - questi cristiani sarebbero stati perduti, e invece hanno ricevuto un aiuto fondamentale". Tuttavia, la mancanza di prospettive, di un lavoro, della possibilità di educare i figli alimentano il risentimento e la sfiducia. "Alcuni profughi sono arrabbiati, altri aspettano la grazia del Signore, ovvero fuggire, altri ancora mostrano pazienza e vogliono credere in un cambiamento". "Per l'Iraq - conclude il sacerdote - si prospetta un futuro di conflitti e divisioni sempre più nette, che porteranno il Paese allo smembramento, se non emergerà un governo forte e una presenza militare salda e in grado di controllare il territorio".