13/03/2009, 00.00
INDIA – MYANMAR
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Sacerdote indiano: il popolo birmano sacrificato sull’altare degli interessi economici

di Nirmala Carvalho
Il “silenzio” della comunità internazionale e dell’India, che liquida “i diritti umani” come una “questione interna” e fa affari con la dittatura. Oggi in Myanmar si celebra la giornata per i diritti umani, ma la democrazia resta ancora “un obiettivo di lungo periodo”.

New Delhi (AsiaNews) – Il silenzio della comunità internazionale sul dramma che si consuma ogni giorno in Myanmar è “vergognoso”. Anche l’India mostra interesse “solo per le risorse economiche e commerciali” e non fa alcun accenno “ai diritti umani”, che liquida come “una questione interna”. Il risultato è che la dittatura militare “si gode tutti i privilegi” e la popolazione “continua a soffrire”. È la denuncia di p. A Cyril, sacerdote gesuita della provincia di Madurai, nel sud dell’India, nato e vissuto per oltre 10 anni in Myanmar.   

La denuncia del religioso coincide con la giornata per i diritti umani nella ex-Birmania, che si celebra oggi: attivisti hanno lanciato una campagna di raccolta firme per chiedere la liberazione di Aung San Suu Kyi e degli oltre 2100 prigionieri politici richiusi nelle carceri del Paese. P. Cyril spiega che la campagna “è un buon segno” e può essere utile per “risvegliare le coscienze nella comunità internazionale”, ma “non sortirà alcun effetto in Myanmar: il governo vigila e chiunque firmerà andrà incontro ad arresti, torture, persecuzioni”.

“In Myanmar – denuncia il sacerdote – vi è una violazione totale dei diritti umani. La giunta militare non garantisce una buona educazione e non crea opportunità di lavoro per i cittadini. Non vi sono libertà; anche la libertà religiosa subisce pesanti restrizioni. Non c’è libertà di spostamento, le persone sono sorvegliate, messe in prigione se sospettate di attività anti-governative e torturate in maniera disumana”. Egli spiega che non vi è la possibilità di un vero “sviluppo sociale ed economico” e la giunta non ha alcun interesse ad avviare “riforme in senso democratico”.

P. Cyril ha visitato il Myanmar nei mesi successivi alla tragedia di Nargis, lavorando per quattro mesi a contatto con gli sfollati. Il 2 maggio del 2008 un ciclone tropicale ha colpito il sud del Paese; i danni maggiori si sono registrati nella zona del delta dell’Irrawaddy, dove ancora oggi – a dieci mesi di distanza – la situazione rimane critica. Narcisi ha causato la morte di circa 140mila persone, ma si calcola che oltre 2,4 milioni di birmani abbiano riportato danni di varia entità e siano ancora in atteso di aiuti. Il religioso gesuita denuncia “gli ostacoli” creati dalla dittatura militare che “non tollera interventi esterni”. “Cercavamo di aiutare le persone che avevano perso tutto a causa del ciclone. Fornivamo loro cibo, aiuti, una casa, ma il governo lo impediva. Tra le persone resta comunque la voglia di lottare, di liberarsi di una tirannia che opprime”.

Il sacerdote dice di avere a cuore “il futuro del Paese e la sua liberazione”, perché se vi sarà “democrazia la nazione potrà crescere”. Il sottosuolo è ricco di risorse minerarie, oro, petrolio; nel Paese vi sono foreste di legno pregiato e la terra è fertile. Le persone sono dotate di “capacità e talento” che non possono esprimere perché impegnate in una “lotta per la sopravvivenza”. La popolazione vive “nel terrore”, sotto la costante minaccia “di pistole e fucili”, moltissimi vengono uccisi. “La gente ha paura – conclude p. Cyril – ma c’è chi si batte per la democrazia e la libertà. È un cammino che richiede tempo e che verrà raggiunto nel lungo periodo. Il Myanmar e il suo popolo hanno tutte le potenzialità per emergere”.

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