Sacerdote ad Amman: la mia vita con i profughi di Mosul
Don Mario Cornioli è un missionario fidei donum, dal 2009 al servizio del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Dei profughi cristiani racconta la straordinaria testimonianza di fede. La sfida è garantire alloggio e lavoro, per superare i danni psicologici. In una casa per bambini disabili a Betlemme l’incontro possibile fra cristiani e musulmani. Il ruolo di ponte delle donne. Sostenere i pellegrinaggi in Terra Santa.
Amman (AsiaNews) - Lavorare a stretto contatto con i rifugiati significa “condividerne” la storia e il dramma personale, essere “parte della loro vita” e contribuire - per quanto possibile - ad “alleviarne le sofferenze”. E nel tempo diventare parte della loro famiglia come è successo con la piccola Mariana “concepita a Mosul [Iraq], scappata nella pancia della mamma a Erbil [nel Kurdistan irakeno], nata ad Amman [Giordania] e che crescerà a Canberra [Australia]”. O ancora, quella del “falegname di Mosul” e del suo laboratorio “un po’ spoglio ma pieno di umanità” ad Amman, in Giordania. È quanto racconta ad AsiaNews don Mario Cornioli, missionario fidei donum di origine italiana, dal 2009 in Terra Santa al servizio del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Raccontando l’emergenza profughi, egli sottolinea “il dramma dei padri di famiglia, angosciati per il futuro dei figli”: molti di loro “sarebbero rimasti nelle terre di origine” nonostante lo Stato islamico, ma sono partiti “pensando alle nuove generazioni”.
Don Mario, 45 anni, è il terzo e ultimo figlio maschio di una famiglia di Sansepolcro, in Toscana. Si è diplomato ragioniere nel 1989 e qualche anno più tardi, nel 1994, ha scoperto la sua vocazione e ha scelto di entrare in seminario. Il 6 aprile 2002 l’ordinazione sacerdotale nella cattedrale di Fiesole, seguita il giorno successivo dalla celebrazione della prima messa a Sansepolcro. Egli ha ricoperto per diversi anni l’incarico di parroco a Montevarchi (Arezzo), che lascia nel 2009 per rispondere a un desiderio missionario che lo porta a Betlemme, in Terra Santa.
“In Giordania sono arrivato un anno fa - racconta il sacerdote - per contribuire all’opera di assistenza e aiuto di quanti sono fuggiti, nell’estate del 2014, da Mosul e dalla piana di Ninive con l’ascesa dello Stato islamico. Avevo sentito del loro dramma, ma solo vedendolo con i miei occhi ho colto la reale portata: vederli dormire ammassati in una stanza, con un solo bagno, era straziante. Vista l’emergenza, il patriarcato mi ha chiesto di adoperarmi all’opera di assistenza e aiuto”.
Il sacerdote definisce “straordinaria” l’accoglienza della Giordania. Secondo fonti Onu, nel Paese vi sono almeno 635mila rifugiati; per Amman la cifra è ancora superiore: pari a 1,4 milioni, circa il 20% della popolazione. Di questi circa 130mila sono iracheni, oltre a 1 milione e 300 mila siriani, cui si devono aggiungere anche i profughi non registrati.
Con l’approvazione della famiglia reale, la Chiesa giordana ha accolto 10mila cristiani irakeni, mobilitando la Caritas e le parrocchie; nessuna di queste famiglie immigrate ha mai vissuto nei campi profughi. Ancora oggi l’emergenza riguarda “l’affitto delle case, l’acquisto di medicine, il cibo”, oltre a cercare di dar loro “un piccolo impiego per racimolare un po’ di denaro”. “È importante - spiega don Mario - che possano guadagnare il pane con dignità, che riescano a impiegare il tempo perché è devastante restare chiusi in casa così a lungo senza fare nulla. Questa inattività è anche causa di gravi danni psicologici ed emotivi”.
Da qui i corsi di sartoria per le donne, falegnameria e panetteria per gli uomini, la piccola produzione artigianale con la vendita dei manufatti. Risposte ai bisogni immediati, anche se “la speranza di tutti i profughi è che possano finire le guerre, che la gente possa restare nelle proprie case, che le potenze mondiali smettano di perseguire i propri interessi sulla pelle dei più deboli”. “Sono persone di una fede straordinaria - racconta il missionario - perché hanno perso tutti i beni materiali, ma hanno saputo mantenere viva la loro fede. Per me, per la mia opera sono una fonte inesauribile di arricchimento personale e di edificazione”.
In questo contesto l’Anno giubilare della misericordia, indetto da papa Francesco, “si fa carne quotidiana, perché diventa la modalità di testimoniare la fede”. Una misericordia, aggiunge, che si manifesta “soprattutto con le opere, in Giordania come in Terra Santa, nei luoghi in cui ho sperimentato la missione, grazie anche al contributo di benefattori e amici in Italia. Fra i tanti una famiglia del nord, che ha destinato 10mila euro ai rifugiati, rinunciando per un po’ al progetto di costruirsi una nuova casa”.
Oltre ai rifugiati irakeni, don Mario si è occupato di centri di accoglienza e attività caritative in Israele e Palestina dove ha svolto - e svolge tuttora - parte della missione. Nel tempo egli ha creato un legame “forte e speciale” con una “casa” per bambini portatori di handicap a Betlemme (nella foto). Il centro, racconta, è nato nel 2005 grazie all’impegno delle suore del Verbo Incarnato e fin dagli esordi della missione “ho lavorato a stretto contatto con loro”. “Abbiamo accolto 26 bambini - prosegue - e oggi la sfida, e l’impegno, è creare una nuova struttura per fornire ambienti diversi a maschi e femmine che, nel frattempo, sono cresciuti e oggi non possono più condividere la stessa stanza”.
Il centro per disabili è aperto e accoglie anche famiglie musulmane, che vedono “la testimonianza concreta della carità cristiana in queste opere - negli ospedali, nei luoghi di accoglienza, negli istituti educativi - e nel modo in cui essi vengono gestiti”. “Si tratta di gesti di carità, di misericordia e di testimonianza fondamentali - prosegue - anche e soprattutto per il nostro compito di annuncio della parola di Gesù. Non possiamo certo salire sui tetti delle case e gridare il Vangelo, ma possiamo vivere la nostra fede mettendola in pratica nel quotidiano, con le opere”.
Nel tempo, queste attività hanno permesso anche la nascita di legami forti fra cristiani e musulmani, soprattutto in Terra Santa, in particolar modo a Betlemme e in alcuni centri minori della Palestina. “Attraverso le opere - racconta don Mario - i musulmani capiscono che abbiamo a cuore anche la loro vita, che non restiamo indifferenti davanti alle difficoltà; se, da un lato, predicare è più difficile, diventa molto più semplice vivere la fede nei gesti”. E nel tempo nascono anche “rapporti di unione molto belli”, come quelli “fra le suore che gestiscono il centro per disabili e le mamme musulmane. Le donne sono le prime ad abbattere le barriere, a creare ponti, a instaurare un clima di familiarità che negli uomini si trova con più difficoltà”.
Infine, egli lancia un appello ai cristiani in Italia e in Occidente: “Venite in pellegrinaggio in Terra Santa - conclude don Mario - perché è il mezzo migliore per mantenere vivo il legame con questa terra e garantire un futuro alla presenza cristiana nella regione. Bisogna portare questo messaggio di unità, vicinanza e solidarietà visitando non solo le chiese, le basiliche, i luoghi santi, ma incontrando anche le persone, le ‘pietre vive’. A Betlemme è bello vedere il volto di Gesù bambino nello sguardo dei cristiani che vivono da secoli in questa terra”.(DS)