17/01/2025, 11.49
ISRAELE - PALESTINA
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Sabella: oltre la tregua, tempo di ‘riconciliazione’ con Israele e nella società palestinese

di Dario Salvi

L'esponente cattolico palestinese definisce uno “sviluppo positivo” il cessate il fuoco firmato nella notte dopo le tensioni nel governo israeliano e gli ultimi nodi con Hamas. “I più piccoli non possono continuare a morire per le presunte responsabilità dei loro padri o delle loro madri”. La sfida di "rimodellare il sistema di governo a Ramallah dove Hamas non potrà avere un ruolo di primo piano". 

Milano (AsiaNews) - La tregua a Gaza fra Hamas e Israele è uno “sviluppo positivo”, così come la “liberazione degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi”, ma la speranza è in una “pausa prolungata” che allenti “questo quadro di conflitto continuo” e il cessate il fuoco diventi “permanente”. È quanto sottolinea ad AsiaNews Bernard Sabella, già rappresentante di Fatah e segretario esecutivo del servizio ai rifugiati palestinesi del Consiglio delle Chiese del Medio oriente, secondo cui è fondamentale intervenire per alleviare “le enormi sofferenze e distruzioni” nella Striscia. Una devastazione che “sta colpendo tutti a livello emotivo, spirituale e fisico” anche e soprattutto per le vittime, la maggioranza delle quali “sono davvero innocenti” a partire dalle donne e i bambini. “I più piccoli - afferma l’intellettuale cattolico palestinese - non possono morire per le [presunte] responsabilità dei loro padri o delle loro madri”. 

Tempo di riconciliazione

“La speranza - prosegue Sabella - è possa iniziare un tempo di riconciliazione” fra le due parti e “all’interno della società e della politica palestinese”, oltre a un “percorso di ricostruzione della Striscia”. Fra quanti hanno ricoperto “un ruolo chiave” il presidente eletto Usa Donald Trump, che premeva per una firma “prima dell’inizio del mandato. Non è dato sapere - aggiunge - quali contropartite abbia offerto al premier Benjamin Netanyahu, se l’ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania, un attacco congiunto all’Iran o rapporti diplomatici con Riyadh. Tuttavia, andando oltre la felicità del momento bisogna trovare una soluzione permanente al conflitto, un accordo politico per la questione israelo-palestinese. Fino a che non accade - avverte - vi saranno sempre guerre intermittenti, scontri, cessate il fuoco che non portano pace e sicurezza in Terra Santa”. 

In queste ore i rappresentanti di Israele, Hamas, Stati Uniti e Qatar hanno firmato l’accordo sugli ostaggi a Doha, con un giorno di ritardo e dopo aver superato gli ultimi ostacoli fra i quali accuse incrociate di rinnegare parti del documento stesso. Decisivo, sul fronte dello Stato ebraico, il via libera nella notte del leader del partito ultra-ortodosso Shas Aryeh Deri; resta invece fermamente contrario il ministro della Sicurezza nazionale (ed esponente della destra ultra-radicale) Itamar Ben-Gvir, che minaccia le dimissioni. Secondo alcune fonti, a complicare l’ufficializzazione alcune richiese sui prigionieri palestinesi fatte da Hamas, di fronte alle quali Israele ha posto il veto perché condannati a ergastoli plurimi per aver pianificato e orchestrato attentati. Brett McGurk, inviato per il Medio oriente del presidente uscente Usa Joe Biden, e Steve Witkoff, inviato di Trump, insieme ai mediatori di Qatar ed Egitto hanno lavorato diverse ore per superare le ultime resistenze. 

Oltre la tregua, un punto di incontro

A seguire, l’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha indetto per oggi una riunione del gabinetto politico di sicurezza per ratificare l’accordo, che dovrà essere approvato dalla compagine di governo. L’opposizione si è già detta pronta a soccorrere la maggioranza, nel caso in cui vi siano defezioni dal duo Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, che soffiano sulla guerra anche a discapito degli ostaggi. Il piano, che dovrebbe iniziare il 19 gennaio, si articola in tre fasi: la prima prevede sei settimane di cessate il fuoco e il graduale ritiro dell’esercito israeliano dal centro di Gaza, col ritorno degli sfollati palestinesi a nord della Striscia; a questo si aggiungono almeno 600 camion di aiuti umanitari al giorno, altri 50 di carburante, e il rilascio di 33 ostaggi da parte di Hamas; per ciascuno di essi, lo Stato ebraico libererà almeno 30 detenuti palestinesi (50 se soldatesse). La seconda inizierà a partire dal 16mo giorno e prevede il rilascio dei rimanenti ostaggi, compresi gli uomini, un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo dei soldati. La terza e ultima il ritorno di tutti i cadaveri rimanenti e l’inizio della ricostruzione sotto la supervisione di Egitto, Qatar e Onu.

“Bene la tregua, ma servono soluzioni permanenti - riprende Sabella - partendo dalla nascita di uno Stato palestinese; la stessa Autorità palestinese ha bisogno di rimodellarsi ed è necessario che israeliani e palestinesi siedano alle stesso tavolo per un accordo politico accettabile. Sono convinto - prosegue - che come me la pensino la maggioranza delle persone in Terra Santa: la guerra non è la risposta”. In una prospettiva futura di dialogo un ruolo cruciale spetta “alla nuova amministrazione Trump, al coinvolgimento dell’Arabia Saudita, ad un territorio definito che non sarà certo il 100% della Palestina storica”. Ribadisce che “la pace non viene con Oslo, con la firma di un documento fra due leader, soprattutto oggi che una parte, quella israeliana, è manipolata da un’estrema destra che non accetta nemmeno il cessate il fuoco. E da un fronte palestinese che deve arrivare ad una unificazione, a un nuovo governo che lavori per dare al popolo ciò di cui ha bisogno”. Solo così “si potrà avviare un processo di pace genuino, anche in Cisgiordania, che porti stabilità e relazioni di buon vicinato” superando visioni “contrapposte” [ebraica sionista e arabo palestinese] incapaci di trovare “un terreno comune, un punto di incontro”.

Nuovo modello palestinese 

“Trump - afferma lo studioso - sta cercando di portare Riyadh al centro della partita, con la sua influenza e il suo essere una nazione islamica di grande importanza e che, in più di una occasione, ha insistito sul diritto dei palestinesi ad uno Stato. Ma per arrivare a una soluzione - avverte - serve un compromesso che porti al riconoscimento dell’altra parte, pur con tutto il dolore che questo passo può comportare”. Per quanto riguarda il fronte interno palestinese, oltre ai prigionieri palestinesi che verranno liberati e i cui nomi al momento non sono ancora ufficializzati, il primo obiettivo è “lavorare per una buona riconciliazione anche all’interno della nostra casa. Marwan Barghuthi - sottolinea Sabella - non credo verrà rilasciato, ma ora la priorità è interna”. Di recente l’89enne presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas ha designato lo speaker del Consiglio nazionale palestinese Rawhi Fattouh successore ad interim in caso di presidenza vacante. “So per certo - afferma il leader cattolico - che Fattouh vuole le elezioni come punto fermo, non impossessarsi del potere ma essere figura di transizione per traghettare i palestinesi alle urne, con nuove personalità e un sistema suddiviso in tre parti: presidente, vice-presidente e un primo ministro capaci di garantire leadership e rappresentanza”.

Infine, il professor Sabella fissa tre punti dai quali partire per raggiungere gli obiettivi di pace e convivenza, ricostruendo inoltre il tessuto sociale e politico palestinese: “Prima di tutto - spiega - non credo che Hamas possa avere in futuro un ruolo di primo piano, pur rimanendo un fattore di influenza anche importante ma, stando alle mie informazioni, farà un passo di lato. Sarà inoltre necessario rimodellare il sistema di governo palestinese, come sta cercando di fare il primo ministro Mohammad Mustafa, con un nuovo esecutivo che sia accettabile per tutti i fronti palestinesi e la comunità internazionale. Infine, si dovranno rivedere le priorità interne partendo dalla ricostruzione di Gaza, con un futuro che si discosti dalla lotta armata e dal frazionamento del potere. Abbiamo bisogno - conclude - di un governo che sia sufficientemente forte per imporre la legge e l’ordine nei territori della Cisgiordania e nella Striscia”. 

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