Ritorno all'Urss
Più della guerra, dei lager e del cibo, a ridare vita al passato a Mosca è l’insopportabile illusione di una superiorità morale e religiosa, che vorrebbe celebrare la capacità dei russi di unirsi nella solidarietà e nel sostegno ai dirigenti del Paese, proclamando la fine dell’individualismo libertario che rovina le anime dei depravati occidentali.
I lunghi mesi della guerra putiniana stanno cambiando velocemente la percezione del tempo, riportando gli orologi indietro di diversi decenni. La Russia ha invocato le glorie di Stalin e rievocato i sogni dei secoli precedenti, ma di fatto sta tornando ad indossare il più grigio vestito della sua storia, quello della stagnazione brezneviana, un ventennio (1964-1985) che sembrava eterno, ma senza futuro.
La prima sensazione di immobilismo, per quanto possa apparire paradossale, viene proprio dal corso degli eventi bellici, con tutte le tragedie e le stragi che si susseguono, l’ultima nel bombardamento del tutto senza senso della città di Vinnitsa, che ha causato decine di morti. La tanto strombazzata “operazione militare speciale” inaugurata il 24 febbraio, con l’invasione dell’Ucraina da tutti i lati possibili, anche dalla Bielorussia, sembrava all’inizio un movimento tellurico, quasi uno spostamento dell’asse terrestre, ma cinque mesi dopo appare come un macigno franato, simile al ghiacciaio della Marmolada, che seppellisce popoli e città, ma anche sogni e speranze.
L’apocalisse putiniana non ha procurato alla Russia alcun vero vantaggio dal punto di vista militare e territoriale, rendendo soltanto esplicito un dominio già da anni rivendicato e da secoli conteso, quello della regione del Donbass e di qualche propaggine litoranea e meridionale, terre di nessuno degli antichi cosacchi, che Khruscev e Breznev scambiavano e rimescolavano come le carte di un gioco senza scopo.
Sembra la riedizione di un famoso romanzo russo, la Dama di Picche di Aleksandr Pushkin: l’ufficiale frustrato riceve in sogno la rivelazione delle carte vincenti, ma quando cala l’asso decisivo, la carta si trasforma in una donna di picche, col sorriso beffardo della vecchia morta per colpa dell’ufficiale. Il gioco è una delle chiavi di lettura della letteratura russa, indicando proprio la fatuità dei grandi sogni di potere e di ricchezza, e la guerra è il gioco catastrofico dei perdenti della storia.
Putin ha rimesso in campo la retorica e le contraddizioni della guerra fredda, la “lotta per la pace” che impegnava l’Urss a imporre la sua aggressività per alte ragioni morali, dovendo impedire all’imperialismo americano di impadronirsi del mondo intero. La minaccia nucleare era “l’asso della vecchia” che non poteva mai apparire sul tavolo da gioco, e rivelò il suo inganno nella disastrosa invasione dell’Afghanistan, l’ultimo azzardo brezneviano che condusse alla dissoluzione dell’impero sovietico.
Le armate di Mosca si impantanarono tra i monti asiatici, attaccati dai mujaheddin che assunsero il profilo di eroi della libertà, prima di diventare terroristi dello stato islamico, ottenendo grandi sostegni strategici e militari dagli occidentali. Oggi i “neonazisti” ucraini, che l’Europa ha disdegnato per decenni, sono i nuovi eroi della resistenza armata e celebrata dell’intero Occidente, e grazie a Putin hanno finalmente fatto dell’Ucraina una nazione rispettata in tutti i consessi internazionali.
Perfino nelle città occupate dai russi, da Kharkiv a Donetsk, si formano nei sotterranei e in mezzo alle macerie le nuove squadre di partigiani dell’Ucraina libera, che renderanno assai dura la vita delle terre de-nazificate per i decenni a venire, sempre che i russi siano davvero in grado di controllarle nei prossimi mesi. Della guerra, insomma, non si vede la fine, e rimarrà a lungo una paralisi del corpo della Russia, che ne blocca ogni movimento e ogni pensiero.
Questa è infatti la conseguenza interna alla vita del popolo russo, la sensazione di essersi infilati un vicolo cieco, in una nuova cortina di ferro assai più invalicabile del muro di Berlino. Per sostenere la guerra si irrigidiscono sempre più le misure repressive, le “purghe putiniane” che non si limitano a eliminare gli oppositori, da Aleksej Naval'nyj all’ultimo arrestato Ilja Jashin, ma cercano propriamente di impedire ogni forma di pensiero. Le ultime norme sono quanto di più brezneviano si potesse immaginare, cercando di scavare nella mente delle persone per cogliere ogni minima discrepanza con i proclami ufficiali, imponendo la lettura unica degli avvenimenti, chiudendo ogni accesso all’informazione, inculcando le veline obbligatorie fin dai manuali di storia, insegnata a memoria a partire dalla prima elementare. Mancano solo i manicomi psichiatrici per i “diversamente pensanti”, ma potrebbero presto riapparire.
Gli oppositori politici assumono ormai la statura dei dissidenti di epoca brezneviana, ritrovando il principio affermato da Solzenitsyn nel 1972, poco prima di essere espulso dall’Urss: “vivere senza menzogna”, resistendo alle falsità del regime prima di affermare qualunque propria idea. Per questo i nuovi dissidenti vengono non soltanto spediti nei lager, ma preferibilmente avvelenati, un metodo sovietico classico di lotta al pensiero alternativo: ci hanno provato con Naval’nyj, con il politico e giornalista Vladimir Kara-Murza e con molti altri attivisti a Mosca e in provincia. Possiamo ricordare il giornalista e collaboratore di Memorial Timur Kuashev, che venne avvelenato in Kabardino-Balkaria nel 2014, e fu trovato morto a pochi chilometri dalla sua casa.
Oltre 16 mila persone, dall’inizio della guerra, sono state arrestate, multate, imprigionate o private di molti diritti per semplici frasi dette tra amici, o per gesti espliciti di invocazione alla pace. Alla terza infrazione si va direttamente in lager, e questa è la sensazione di totale impotenza e isolamento che provano oggi i cittadini russi, anche quando vorrebbero esprimere una propria opinione, ma temono per le conseguenze, come ai tempi della stagnazione. Nel primo anno di Breznev, dopo le aperture di Khruscev, vennero arrestate circa 20 mila persone.
Oltre alla frustrazione per una guerra inconcludente, e la depressione per un sistema nuovamente totalitario, un’altra caratteristica del ritorno alle dimensioni sovietiche della vita quotidiana è lo sprofondamento nell’autarchia, la perdita di ogni collegamento con le conquiste materiali del mondo contemporaneo. Le sanzioni occidentali non hanno finora molto influito sul corso della guerra, anche perché Putin continua a usare a suo vantaggio il ricatto del gas e del petrolio, a cui gli occidentali non sanno rinunciare. È proprio la vita di tutti i giorni ad assumere i toni medievali della carenza di mezzi di trasporto, di farmaci e prodotti alimentari, di articoli per il vestiario e l’arredamento.
I centri commerciali sono diventati lugubri e immensi nella sensazione di vuoto, che ricorda quella dei magazzini Gum sulla piazza Rossa di un tempo, quando si formavano code infinite appena appariva un maglioncino di diverso colore. I McDonald’s sono diventati “Buono e basta!”, come il cibo delle bancarelle sovietiche di una volta, dove si era quasi costretti a consumare senza protestare. Le folle si accalcano ai nuovi fast-food patriottici per mostrare l’orgoglio del proprio disprezzo per il mondo intero, salvo gettare subito a terra gli hamburger ammuffiti e rinunciare alle patatine fritte, scomparse per mancanza di produzione e distribuzione.
E più della guerra, dei lager e del cibo, a ridare vita al passato è l’insopportabile illusione di una superiorità morale e religiosa, che vorrebbe celebrare la capacità dei russi di unirsi nella solidarietà e nel sostegno ai dirigenti del Paese, proclamando la fine dell’individualismo libertario che rovina le anime dei depravati occidentali. È la “linea del partito” oggi affidata alla Chiesa ortodossa e ai rappresentanti delle religioni “patriottiche”, soprattutto l’Islam, che viene illustrata con toni solenni da patriarchi, metropoliti, arcivescovi e mufti tartari e ceceni, come ai tempi brezneviani si raccomandava di fare ai rappresentanti del clero, per aggregare la popolazione più anziana e retriva. Il patriarca Kirill assomiglia sempre più all’ideologo sovietico Mikhail Suslov, in versione minore, come il ministro degli esteri Lavrov cerca di imitare il leggendario “mister niet” Andrej Gromyko, ma con effetto di triste parodia. Attorno al sempre più bolso e isolato dittatore, che esce dal bunker solo per sedersi a tavoli ciclopici e rimasticare folli minacce all’universo, si aggira una casta di anonimi gerarchi, qualcuno più veemente e annebbiato dalle gradazioni alcoliche, ciascuno dei quali potrebbe diventarne il successore senza che alcuno se ne accorga, come avvenne per Andropov e Cernenko negli anni ‘80.
Il mondo intero appoggia e sostiene giustamente l’Ucraina, per difendere la libertà e l’autonomia dei popoli, i principi stessi della civiltà. Ma chi potrà salvare i russi da sé stessi, ed evitare la scomparsa di un grande popolo nella prigione del suo passato?
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