Rimosso il presidente della giunta al governo. Tensioni anche nel partito di Aung San Su Kyi
Naypyidaw (AsiaNews/Agenzie) – Un raid delle forze di sicurezza nella sede dell’Union Solidarity and Development Party (Usdp) ha portato, nella notte di ieri, alla rimozione di Shwe Mann dalla carica di presidente del partito al governo in Myanmar. Uomini armati della giunta hanno circondato il quartier generale del partito, all’interno del quale si è svolto un consiglio ristrette che ha nominato l’attuale presidente del Paese Thein Sein quale presidente dell’Usdp e U Tin Naing Thein nuovo segretario generale, rimpiazzando Maung Maung.
Il colpo di mano arriva alla vigilia della presentazione delle liste di candidati alle prossime elezioni democratiche, fissate per l’8 novembre (le prime “libere” dal 1990). Esso è conseguenza di un escalation di tensione all’interno del partito. Secondo alcune voci, Shew Mann (ex generale, come il presidente) non volesse appoggiare i candidati leali a Thein Sein e non accettasse le nuove candidature di ex militari. L’ex presidente del partito si era opposto all’esercito su alcuni punti chiave: era favorevole alla riforma costituzionale che vedrebbe una diminuzione del potere della frangia militare all’interno della giunta.
Shwe Mann aveva anche accolto l’idea di lavorare in collaborazione con Aung San Suu Kyi, leader del partito all’opposizione (Nld) che, secondo gli analisti, otterrà un grande risultato alle elezioni.
Da parte sua, Thein Sein ha minimizzato l’accaduto, affermando che “si tratta solo di un affare interno alla leadership del partito, non c’è bisogno di preoccuparsi” e che “il governo sta lavorando per ristabilire l’ordine”. Il presidente anche confermato che non si candiderà per un posto in parlamento ma che accetterà un’eventuale secondo mandato alla presidenza.
Tensioni si registrano anche all’interno del National League for Democracy (Nld). Nei giorni scorsi Aung San Su Kyi ha espulso – per “violazione del regolamento di partito” – almeno 10 membri che protestavano contro l’esclusione, dalla lista di candidati, di alcuni leader storici della lotta per la democrazia.