Rifugiati siriani detenuti e rimpatriati a forza da Libano e Turchia
Crisi economica e disoccupazione hanno alimentato il risentimento delle popolazioni locali. Ankara ha notificato il decreto di espulsione a un migliaio di rifugiati. A Beirut si moltiplicano i licenziamenti sommari di lavoratori immigrati. Profughi costretti a firmare a forza il documento di rimpatrio volontario.
Damasco (AsiaNews/Agenzie) - Nelle ultime settimane i centri per l’immigrazione in Turchia e Libano hanno avviato le pratiche per l’espulsione di centinaia di rifugiati siriani, riportandoli in aree dove sono in atto ancora oggi focolai di conflitto. Il timore è che i due governi, colpiti da crisi economiche e problemi interni nella gestione dei profughi, possano avviare politiche di deportazione di massa che finiranno per mettere in pericolo la vita dei rifugiati.
Nello scorso fine settimana le autorità turche hanno identificato e notificato il foglio di espulsione entro 30 giorni a oltre mille rifugiati siriani ospitati nei centri che circondano Istanbul. Alcuni rifugiati confermano che l’iter per l’espulsione è già stato avviato, con il trasferimento in pochi giorni in tre diversi centri.
I funzionari della sicurezza hanno confiscato i telefoni cellulari e separato i rifugiati dalle famiglie e dagli attivisti e avvocati pro diritti umani. In un secondo momento, le autorità di Ankara hanno costretto i profughi a firmare un documento in cui dicono di voler tornare “in modo volontario” in Siria, anche in zone nelle quali sono in corso scontri e violenze.
Dietro la decisione di promuovere politiche di rimpatrio, la crescente disoccupazione unita alla crisi economica che hanno determinato una consistente perdita di consensi per il presidente Recep Tayyip Erdogan. Il quale, nelle prime fasi della guerra, aveva aperto le frontiere e auspicato l’accoglienza in nome della comune identità “musulmana e islamica” dei profughi. La scala e la portata degli arresti e delle espulsioni, avvertono gli attivisti, indicano un “ribaltamento” della politica delle porte aperte, che hanno permesso a cinque milioni di rifugiati in questi anni di trasferirsi oltreconfine in Turchia.
A Beirut diversi lavoratori immigrati siriani, la maggior parte dei quali senza documenti, parlano di licenziamenti sommari in atto dai primi di luglio, nel contesto di un decreto governativo che mira a privilegiare l’occupazione di giovani (e non) libanesi. Del resto nell’ultimo periodo la leadership del Paese dei cedri afferma [a dispetto delle testimonianze di ong e attivisti locali] che la guerra nella vicina Siria si può dire conclusa e la gran parte del territorio è sicura. A questo si aggiunge la grave crisi economica di una nazione di pochi milioni di abitanti, in cui oltre un quarto della popolazione è formata da profughi e rifugiati.
Nel contesto del conflitto siriano, sia la Turchia che il Libano da accesi sostenitori (nelle prime fasi) di una caduta del presidente Bashar al-Assad e di un cambio di regime, ora guardano all’area con una visione più pragmatica. A prevalere sono le tensioni interne e il crescente malcontento della popolazione locale contro i profughi e i migranti, considerati sempre più come la causa del dissesto economico e della mancanza di occupazione.
Camille Abousleiman, ministro libanese del Lavoro, dice che sta “semplicemente applicando le leggi in materia di lavoro”, favorendo l’occupazione locale e regolando quella straniera. Gökçe Ceylandağ, portavoce del dipartimento turco per l’immigrazione, nega con forza le accuse di rimpatri forzati e quanti rientrano nel Paese di origine lo fanno “su base volontaria”. Diversa l’opinione di Liz Throssell, portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), che parla di “questione delicata”, mentre un membro dello staff conferma “rapporti costanti di rifugiati costretti a firmare” il rimpatrio volontario.
04/12/2019 08:47