Rawalpindi: la 26enne Aneeqa Ateeq condannata a morte per blasfemia
Si tratta del secondo caso in pochi giorni di pena capitale per violazioni alla controversa legge. Alla giovane inflitti anche 24 anni di galera e una multa di 200mila rupie. Avrebbe condiviso e diffuso immagini sacre dell’islam usando app e social. A denunciarla sarebbe stato un amico. Voci non confermate parlano di vendetta perché si è sentito respinto.
Rawalpindi (AsiaNews) - Un tribunale specializzato in reati informatici di Rawalpindi, nel Punjab (Pakistan) ha condannato a morte la 26enne Aniqa Atiq con l’accusa di blasfemia. Alla giovane sono stati comminati anche 24 anni di galera e una multa di 200mila rupie (circa 1.100 euro). Dall’inizio dell’anno è già la seconda volta che i giudici comminano la pena capitale in due diverse vicende, sempre con l’accusa di blasfemia: nei giorni scorsi, infatti, un cristiano considerato il prigioniero di più lungo corso per questo tipo di accusa, si è visto commutare la condanna all’ergastolo in condanna a morte.
La donna è stata arrestata nel maggio del 2020 e incriminata per aver postato “materiale blasfemo” (rappresentazioni di personalità religiose islamiche) nel proprio status di WhatsApp. Un amico, Hasnat Farooq, le aveva suggerito di cancellare in tutta fretta le foto, ma Aniqa invece di accondiscendere alla sua richiesta gli avrebbe inoltrato le stesse immagini utilizzando l’app. A quel punto l’amico ha sporto denuncia all'unità speciale contro i crimini informatici della polizia pakistana. Alcune fonti non confermate riferiscono di un interessamento del giovane che, sentendosi respinto, si sarebbe vendicato usando questo pretesto.
Il 13 maggio la Fia Cyber Crime ha aperto un fascicolo contro la giovane presso il tribunale di Rawalpindi, con l’accusa di blasfemia e di violazioni alla legge sui crimini informatici, dietro denuncia dell’accusatore Hasnat Farooq. L’avvocato di Aniqa, Raja Imran Khalil, interpellato da Voice of America (Voa) ha detto che l’assistita avrebbe pubblicato dei ritratti fatti a mano di figure religiose per poi postarli sullo status di WhatsApp. I giudici avrebbero ricevuto 36 pagine contenenti materiale “incriminato” scoperto in alcuni oggetti personali della donna fra cui computer, chiavette usb, schede telefoniche, smartphone e memory card.
Con il gioco online PubG, l’imputata ha poi inviato materiale religioso sensibile all’amico-accusatore Hasnat Farooq, che si era presentato come un uomo religioso e non avrebbe gradito le “provocazioni” della ragazza. Per questo ha iniziato a raccogliere il materiale probatorio, con il quale si è presentato davanti agli agenti di polizia per la denuncia.
I giudici hanno specificato che l’accusata non ha fornito alcuna prova a sua discolpa durante il dibattimento e per questo è stata condannata a morte per impiccagione, oltre alla pena detentiva e alla multa. Oltre all’app di comunicazione, Aniqa avrebbe diffuso il materiale sensibile e offensivo per la fede musulmana anche su YouTube.
Attivisti e voci critiche ricordano come le leggi sulla blasfemia siano spesso sfruttate per dirimere controversie personali o per attaccare rivali, minoranze (anche quella cristiana) o persino fra musulmani sapendo che spesso il processo si conclude con la condanna. L’attivista pro-diritti umani Mariyam Kashif, con base a Karachi, pur sottolineando che non si deve colpire la sensibilità religiosa ricorda al contempo che ci possono essere pene alternative all’impiccagione, come il carcere e le pene pecuniarie.
In passato aveva fatto scalpore a livello locale e anche internazionale la vicenda di blasfemia che ha visto per protagonista Asia Bibi, madre cristiana per anni nel braccio della morte. L’intervento di organizzazioni, movimenti attivisti, governi e dello stesso papa Francesco hanno permesso di sbloccare la vicenda e liberare la donna.
18/08/2022 10:37