Raoen, la voce delle Chiese di Asia e Oceania per il creato
Una rete di esperienze per far crescere la consapevolezza del legame tra i due continenti nella sfida ambientale. Con un messaggio alla Cop27 che si apre oggi a Sharm el Sheik: “I negoziati tra governi hanno fallito, si ascolti il grido delle comunità locali”.
Bangkok (AsiaNews) - Tra le grandi sfide emergenti dell’Asia con cui si è confrontata la Conferenza generale delle Chiese cattoliche di questo continente - chiusasi domenica scorsa a Bangkok - un posto di rilievo l’hanno avuto le tematiche ambientali, poste dall’enciclica Laudato Sì. Molte regioni dell’Asia si trovano già oggi a fare i conti con i gravi effetti del cambiamento climatico: è di appena poche settimane fa la catastrofe senza precedenti delle alluvioni in Pakistan, che hanno colpito contemporaneamente milioni di persone provocando più di 2mila morti. Ma quell’evento - frutto di un mix devastante creato da piogge eccezionali e scioglimento dei ghiacciai a causa delle alte temperature - è stato solo il più visibile: il cambiamento climatico semina desolazione anche in maniera nascosta attraverso siccità e carestie. Per non parlare della corsa allo sfruttamento delle materie prime, che anche in Asia deturpa le foreste e sconvolge la vita di tante comunità tribali.
Su tutto questo ai vescovi riuniti a Bangkok ha presentato la propria esperienza il River Above Asia and Oceania Ecclesial Network (Raoen) una rete ecclesiale che negli ultimi anni è stata promossa da alcune realtà di entrambi i continenti che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Il modello è l’esperienza della Repam – la rete ecclesiale panamazzonica dell’America Latina – con la quale questo organismo collabora in un grande network che oggi comprende anche la Rete ecclesiale del bacino del Congo (Rebac) in Africa e la Rete ecclesiale ecologica dell’America Centrale (Remam).
Perché Asia e Oceania insieme? “Perché il clima in Asia dipende dall’Oceano Pacifico e comprenderlo è parte della sfida”, risponde il gesuita p. Pedro Walpole, di origini irlandesi ma da tanti anni al servizio delle comunità indigene a Bukidnon, sulle montagne dell’isola di Mindanao nel sud delle Filippine. “Le attività inquinanti sono l’inizio del problema, ma poi finiscono velocemente nell’atmosfera e da qui negli oceani. L’Oceano Pacifico copre un terzo del mondo e sta vivendo la trasformazione più pesante in termini di temperature. E gli eventi estremi che stiamo sperimentando in Asia vengono da lì”.
Questo sguardo è una sfida anche ecclesiale: “Dobbiamo capire che siamo legati alle popolazioni che vivono in Oceania, che siamo parte di un cammino comune - continua p. Walpole -. Anche se numericamente sono pochi, i problemi che affrontano sono più grandi. Dobbiamo sostenere il loro grido nel vedere il livello del mare che cresce sulle loro isole, nel denunciare la perdita delle loro culture perché costretti a trasferirsi da qualche parte sulla terra ferma. Anche le grandi popolazioni dell’Asia devono sostenerle. Del resto le Filippine non saranno parte politicamente dell’Oceania, ma è da lì che arrivano i tifoni che devastano il nostro Paese”.
Proprio oggi a Sharm el Sheik si apre la COP27, la conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, ma le aspettative non sono affatto alte. “Quel percorso ormai è inadeguato perché non include le realtà sociali, sono solo negoziati tra governi - commenta il coordinatore della Raoen -. E che negoziato possiamo aspettarci in Egitto, dove non si può nemmeno manifestare fuori dalla sede della conferenza? Già Glasgow l’anno scorso ha completamente fallito nell’avere un impatto. Lo stesso impegno sulla riduzione dell’estrazione del carbone è stato spazzato via dalla guerra in Ucraina”.
Anche i grandi colossi asiatici, però, hanno le loro responsabilità. “La Cina contribuisce per il 30% all’estrazione di carbone ma a chi la critica ribatte dicendo che l’Occidente ne ha beneficiato per secoli. Come raggiungere un equilibrio?”, si chiede p. Walpole. Indicando però un nodo cruciale: “I diritti umani sono parte essenziale di questo processo. Il modo in cui si stanno conducendo ora i negoziati invece li esclude, è solo una questione di rapporti potere. Ma di quanti altri disastri abbiamo bisogno per capire che il ruolo delle piccole comunità locali nella salvaguardia del creato è essenziale? Dobbiamo ritornare all’idea del prendersi cura ed è quanto come Chiesa dobbiamo ricordare. Spazzare via l’idea che possano esserci soluzioni solo tecnologiche alla crisi ambientale che non facciano i conti con l’ingiustizia e gli squilibri nella distribuzione delle ricchezze. Abbiamo bisogno di risposte che mettano al centro le persone”.
Cita un esempio molto concreto p. Walpole: “Smettiamo di piantare decine di migliaia di alberi. Sosteniamo invece chi è in grado di farli crescere davvero e cioè le popolazioni agricole. Sosteniamoli per 25 anni nella cura della terra, anziché distruggerla con attività estrattive o fertilizzanti chimici. Coinvolgiamo loro nel ricreare l’equilibrio delle foreste naturali. Uscendo dalle illusioni: qualche anno fa una famiglia della classe media spendeva il 50% del proprio reddito per il cibo, adesso siamo al 40%. Ma questi prezzi - resi bassi per stimolare l’acquisto di altri beni di consumo - sono il risultato di sistemi che fanno uscire sempre di più le persone dai processi produttivi agricoli. Con un costo che poi paghiamo tutti con le conseguenze sull’ambiente”.
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