Peshawar, nella chiesa della strage si prega per i morti. Cristiani in piazza contro le violenze
Islamabad (AsiaNews) - A distanza di due giorni dall'attentato sanguinario che ha colpito i cristiani a Peshawar, nella minoranza pakistana regnano ancora sgomento e terrore, misti a un senso di ira e frustrazione. In tutto il Paese si susseguono le proteste per la strage di matrice estremista - i sospetti convergono su due gruppi islamisti, ma non vi sono certezze - che, secondo le stime ufficiali, ha causato 83 morti e 150 feriti. Un bilancio delle vittime destinato ad aumentare, perché vi sono diversi ricoverati in condizioni critiche. Ieri, intanto, la chiesa di Tutti i Santi a Peshawar, nella provincia settentrionale di Khyber Pakhtunkhwa, è stata riaperta per una funzione religiosa a suffragio delle vittime di un attacco che leader religiosi cristiani e musulmani hanno definito "codardo" e "vergognoso".
Decine di migliaia di persone, cristiani e musulmani, sono scese in piazza fra ieri e oggi a Lahore, Islamabad, Karachi, Faisalabad e nelle altre città del Pakistan per protestare contro la strage. In alcuni casi le manifestazioni sono sfociate in episodi di violenza: alcune cronache parlano di un morto negli scontri con le forze di polizia preposte a garantire la sicurezza. A Peshawar i dimostranti hanno bloccato per alcune ore le vie di comunicazioni principali; scene analoghe si sono viste nella capitale e a Lahore.
Sul versante delle indagini è di oggi la notizia del fermo di alcune persone (tre o più), sospettate di coinvolgimento nella strage. Alcune testimonianze raccontano che uno dei due attentatori kamikaze sarebbe una donna ventenne, ma non vi sono conferme ufficiali. Da più parti arrivano appelli alla calma e alle proteste pacifiche, in particolare dalla leadership cristiana pakistana e dai vescovi cattolici, che temono un'escalation delle violenze. In piazza si vedono studenti, professori, semplici cittadini, sacerdoti, suore, leader religiosi cristiani e musulmani con slogan e cartelli che condannano con forza l'attentato suicida e maggiore tutela delle minoranze religiose.
Negli occhi delle vittime e dei superstiti è ancora forte l'orrore vissuto domenica, al termine della funzione di preghiera. Salman John, un ragazzino di 12 anni, racconta in lacrime: "Avevamo finito le lezioni, quando abbiamo sentito una fortissima esplosione... Non posso ancora credere di aver perso i miei amici, non potrò più vederli". Il dolore colpisce anche la comunità islamica, che manifesta solidarietà ai cristiani. Maulana Tariq Shah, studioso musulmano a Peshawar, ricorda che "l'islam ci insegna a proteggere le minoranze. Questo atto è una barbarie". Gli fa eco un attivista per i diritti umani di Lahore, Iftikhar Ahmed, che ricorda i principi ispiratori fissati da Ali Jinnah, fondatore del moderno Pakistan, secondo cui tutti i cittadini dovevano sentirsi "liberi" - e sicuri - nel frequentare la propria moschea, chiesa o tempio. Hafeez Nauman Kadir, membro dell'Islamic Ideology Council, conferma vicinanza e solidarietà "ai nostri fratelli e sorelle cristiani" colpiti da "terroristi che non hanno alcuna religione" e che il governo "deve punire".
Mons. Sebastian Shah, arcivescovo di Lahore, e mons. Rufin Anthony, vescovo di Islamabad/Rawalpindi, hanno visitato i feriti ricoverati negli ospedali e pregato per le vittime. I prelati invitano i manifestanti a dimostrare in modo pacifico ed evitare danni ai beni pubblici. Mons. Joseph Coutts, arcivescovo di Karachi e presidente della Conferenza episcopale, parla di "problema politico" e spiega che tocca all'esecutivo, non ai leader religiosi, decidere se è il caso di intavolare dialoghi con i talebani o procedere con un'offensiva militare. Infine p. Bonnie Mendes che punta il dito contro i vari governi che si sono alternati negli anni e che non hanno saputo combattere a fondo la deriva islamista del Paese, oltre che fornire pari accesso e opportunità anche alle minoranze religiose.
(Ha collaborato Shafique Khokhar)