Per Pechino la reincarnazione del Dalai Lama deve seguire le leggi cinesi
il concetto è stato ribadito questa settimana durante un incontro a cui hanno partecipato 50 monaci riconosciuti dalla Cina, ma a cui il leader spiritu ilale del Tibet si è sempre opposto. Il Dalai Lama potrebbe mettere fine alla linea di successione il prossimo anno al suo 90mo compleanno, escludendo Pechino dal controllo sulla religione buddhista.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) - Anche la reincarnazione dei buddhisti tibetani deve seguire la legge cinese. È quanto affermano le autorità di Pechino, una nozione ribadita anche a un recente seminario tenutosi a Lanzhou, nella provincia del Gansu e a cui hanno preso parte una cinquantina di monaci riconosciuti dal governo cinese. Un episodio che riaccende le tensioni con il Dalai Lama, il leader dei buddhisti tibetani in esilio in India, che - ci si aspetta - dovrebbe annunciare i piani per la sua successione entro il prossimo anno.
Secondo il sito filo-cinese Tibet.cn, all’incontro del 3 settembre è stato ribadito che le politiche per la “reincarnazione dei buddha viventi nel buddhismo tibetano” devono essere “compatibili con la società socialista”. Secondo il Collegio di alto livello del buddhismo tibetano di Pechino, che si occupa della formazione dei monaci ufficialmente riconosciuti dal Partito comunista cinese e che ha organizzato l'incontro, le usanze storiche, compresa l'approvazione del governo, sono “un principio importante da seguire nella reincarnazione”.
Come per tutte le religioni riconosciute sul suolo cinese, Pechino chiede che i membri del clero giurino fedeltà al Pcc, ma per le autorità cinesi la questione della reincarnazione si intreccia con la sovranità sul Tibet.
La Cina teme infatti che la morte dell’attuale Dalai Lama possa generare instabilità sociale nella regione che dal 1950 cerca di opporsi alle ingerenze cinesi. La guida spirituale e premio Nobel per la pace aveva affermato che avrebbe affrontato la questione della reincarnazione a 90 anni, cioè a luglio dell’anno prossimo.
Secondo la tradizione tibetana, il Dalai Lama, al momento della morte, si reincarna in un bambino, da secoli identificato attraverso un complesso processo di rituali e ricerche. Ma Pechino insiste che la reincarnazione deve seguire le regole cinesi. Pechino ha così introdotto il rito dell'Urna d'Oro, un'antica pratica imperiale ripresa dal Partito comunista e dal 2007 incorporata nei regolamenti ufficiali cinesi.
Con questo metodo, nel 1989 la Cina individuò un Panchem Lama, titolo di un altro importante leader religioso del buddhismo tibetano che secondo la tradizione dovrebbe approvare il riconoscimento del prossimo Dalai Lama. Ma l’attuale guida spirituale del Tibet, sottolineando l’illegittimità del processo, non ha mai riconosciuto il Panchem Lama di Pechino, ma ha fatto intendere di voler porre fine alla sua linea di reincarnazione, in modo da escludere Pechino dalla possibilità di avere voce in capitolo.
Da tempo le autorità cinesi organizzano incontri rivolti ai monaci per “sinicizzare” il buddhismo tibetano e portarlo sotto il proprio controllo. A marzo si è tenuto nella capitale un seminario simile a quello di Lanzhou, mentre a metà ottobre si terrà, nella città orientale di Ningbo, il World Buddhist Forum, a cui, dal 2006, il Dalai Lama non è mai stato invitato.
Secondo gli esperti, Pechino vuole dimostrare ai Paesi asiatici che “al posto dell’India, dove il buddhismo è nato, è la Cina ad avere maggiore influenza”, ha commentato a Radio Free Asia Sana Hashmi, ricercatrice del think tank Taiwan-Asia Exchange Foundation. Un modo per far credere al mondo che la Cina stia preservando il buddhismo tibetano. “Dal 2020, sotto la guida del presidente Xi Jinping, il Pcc ha intensificato gli sforzi per ‘sinicizzare’ il buddismo tibetano, assegnando questo compito all'Associazione buddista cinese, che organizza conferenze ed eventi, strumenti di manipolazione del soft power”, ha spirgato Tenzin Dorjee, membro della Commissione per la libertà religiosa internazionale degli Stati Uniti.