Per Israele è il momento e l’occasione di puntare ad una pace globale
di Arieh Cohen
La pace con la Siria, cui seguirebbe quella col Libano, permetterebbe allo Stato ebraico di essere in pace con tutti i suoi vicini, allontanerebbe Damasco da Teheran, costringendo Hezbollah a divenire un normale partito politico, e avrebbe effetti anche sui palestinesi. Perché non riconvocare la Conferenza di Madrid, si chiede un esperto osservatore di vicende religiose e politiche mediorientali.
Tel Aviv (AsiaNews) – E’ stata una settimana particolarmente piena in una regione conosciuta per fornire quasi sempre un dramma senza fine. L’accordo di Doha sulla fine della crisi politica libanese; l’avvicinarsi del momento decisivo nel negoziato indiretto (mediato dall’Egitto) tra Israele e Hamas sul desiderato reciproco cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza; l’intensificarsi dell’inchiesta di polizia che riguarda il primo ministro israeliano Ehud Olmert… e, prima di tutto, l’apertura ufficiale del lungamente atteso negoziato di pace tra lo Stato ebraico e la Siria, mediato dalla Turchia.
In passato abbiamo già osservato più di una volta su AsiaNews (ed anche altrove) che un trattato di pace fra Israele e Siria è indispensabile non solo per una riconciliazione israelo-palestinese, ma è anche relativamente facile da realizzare. Fu quasi firmato a Shepherdstown, negli Stati Uniti, circa un decennio fa, e fu lì lì per essere realizzato durante il governo Nethanyahu, pochi anni dopo ed è ancora raggiungibile sulla base di termini chiari e relativamente semplici. Il governo siriano ha insistito nel ripetere pubblicamente la sua volontà di firmare un trattato di pace. Essenzialmente esso dovrebbe comprendere il ritiro di Israele dalle Alture del Golan - che fin dalla guerra arabo-israeliana del 1967 sono poste dal diritto internazionale sotto la qualifica di “occupazione bellgerantei” - e alcuni accordi riguardanti la demilitarizzazione di zone vicine ai confini, da entrambe le parti, ed il regolamento delle risorse idriche, alle quali entrambe le parti hanno interesse. E’ anche forse probabile che possa comprendere una qualche forma (eventualmente tacita) di riconoscimento dell’interesse nazionale siriano in Libano.
Il costo di un tale trattato, per Israele sarebbe più modesto (comparato con quello elevato, politicamente ed economicamente) di uno con i palestinesi, mentre i benefici sarebbero enormi. La pace con la Siria chiuderebbe il cerchio di pace intorno a tutti i confini del Paese. Egitto e Giordania hanno già un trattato di pace con Israele e il Libano ne firmerebbe uno appena lo avesse concluso la Siria. Non ci sono veri problemi di confine tra Israele e Libano ed il Libano sarebbe costretto alla firma, se la Siria glielo dicesse.
Un trattato di pace con la Siria significherebbe – come conseguenza e non come pre-condizione – la separazione di Damasco dal militante anti-israeliano Iran, con la conseguente totale trasformazione del ruolo di Hezbollah in Libano. Tagliato fuori dagli approvvigionamenti iraniani e senza il sostegno siriano, esso dovrebbe trasformarsi molto rapidamente in un “normale” partito politico libanese o essere schiacciato.
Riconoscere il ruolo della Siria in Libano non sarebbe un gran sacrificio. L’accordo di Doha, che ha posto fine alla lunghissima crisi politica libanese, ha in effetti dato il controllo del Paese a Hezbollah, con il sostegno della Lega araba ed il consenso dell’Occidente. La Siria è così rimasta l’unica realtà dotata dell’influenza che può salvare il Libano dai piani del Partito di Dio di trasformarlo in una succursale di stile iraniano dell’islam militante. E non c’è possibilità di errore: l’attuale alleanza di Damasco con Teheran e il Partito di Dio è innaturale e può facilmente essere rotta. La natura e gli interessi del regime siriano sono essenzialmente antitetici a quelli di Iran e Hezbollah, anche solo perché la Siria è il solo bastione di secolarismo ideologico rimasto in Medio Oriente ed è guidata dai seguaci di una minoranza religiosa (Alawita) ritenuta eretica da tutti i rami dell’islam, sia sunniti che sciiti. Una volta che la Siria sarà uscita dal suo isolamento e rafforzata dalla sua pace con Israele, da una più salda alleanza con la Turchia e conseguentemente con legami più stretti con l’Occidente, il legame con l’Iran e la sua “succursale” svanirebbe praticamente da solo.
I negoziati di pace con la Siria, più o meno in questa prospettiva, sono stati evocati a lungo da una influente serie di ex capi dell’intelligence militare israeliani, altri leader militari, alcuni ministri ed altri politici, sebbene la loro voce sia stata udita solo sporadicamente in pubblico. Altri hanno obiettato - per varie ragioni: ci sarà qualche “prezzo” da pagare in termini di politica interna israeliana – anche se i 20mila o quasi coloni nelle Alture del Golan sono ben meno dei 400mila di Gerusalemme est e della Cisgiordania, che sarebbero colpiti da una pace con i palestinesi – e c’è la forte percezione in Israele che gli Stati Uniti vedrebbero le cose in modo diverso e potrebbero avanzare obiezioni a colloqui di pace con Damasco.
Ora la questione che ci si pone è: quanto sono serie e trattative? C’è una corrente di pensiero in Israele che le squalifica come non serie e ritiene l’annuncio di questa settimana un nuovo tentativo del primo ministro Olmert di distrarre l’attenzione dai suoi crescenti problemi legali e dalle richieste di dimissioni. I sostenitori del premier evidenziano che i colloqui sono stati segreti per lungo tempo, ben prima che la politica e il procuratore lanciassero l’attuale, quarta o quinta, inchiesta sul comportamento finanziario (politica e personale) di Olmert nei suoi precedenti incarichi come ministro dell’industria e del tesoro e come sindaco di Gerusalemme.
Di maggiore importanza è la domanda se i negoziati di pace, ed anche un accordo di pace, con la Siria sarebbe pienamente significativo fuori dal contesto di una pace maggiormente estesa, regionale, che includa al tempo stesso i palestinesi. Qualcuno potrebbe dire che un trattato di pace con Damasco sarebbe contemporaneamente un “colpo di grazia” per la causa palestinese e quindi un beneficio per Israele. I palestinesi si troverebbero circondati nella loro terra da Paesi arabi in pace con Israele e quindi costretti a trovare un accordo con Israele alle condizioni israeliane. Altri argomentano che lasciare i palestinesi nei territori occupati in tale isolamento, inscatolati e senza speranza, servirebbe solo ad accrescere la tensione ad un livello che non potrebbe essere contenuto a lungo. E, ovviamente, c’è il problema di come centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi in Libano potrebbero essere spinti ad accettare di essere ristabiliti da qualche parte in modo permanente se non nel contesto di una pace totale tra arabi e israeliani, che provvederebbe al loro risarcimento ed alla loro ricollocazione con l’aiuto di finanziamenti esterni e una cooperazione praticamente globale. Che era esattamente ciò che doveva essere previsto nel quadro della Conferenza di Madrid.
Così si ripropone di nuovo la perenne questione, anche nell’attuale contesto: perché, semplicemente, non riconvocare la Conferenza di Madrid del 1991 e negoziare i residui elementi di una pace globale tra arabi ed israeliani in questo quadro omnicomprensivo? Ora che Israele ha rotto i tabù degli anni recenti, e sta difatti negoziando con la Siria nello stesso momento nel quale tratta con i palestinesi (il cosiddetto “processo di Annapolis”), perché non rinnovare lo sforzo di fare tutto questo all’interno di un processo organico?
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