Papua: le ragioni dietro le ultime rivolte
Parla Adriana Elisabeth, a capo del Centro di ricerca politica di un istituto del governo indonesiano. In Indonesia, il razzismo verso i papuani è un fenomeno diffuso. A partire dal 19 agosto, diverse manifestazioni di protesta sono sfociate in violenza. “Jakarta deve comprendere meglio lo spettro dei diritti umani; non fermarsi agli aspetti politici, ma interessarsi a realtà economica e tematiche socioculturali”.
Jakarta (AsiaNews) – Le sanguinose rivolte che nelle settimane scorse hanno sconvolto i territori più orientali dell'arcipelago indonesiano – le province di Papua e West Papua – “non derivano da tensioni settarie tra popolazione autoctona e immigrata; ma chiunque sia dietro i disordini conosce bene le problematiche sociali del luogo e potrebbe sfruttare le violenze per futuri guadagni politici”. Lo dichiara ad AsiaNews Adriana Elisabeth (foto), coordinatrice del Papua Peace Network (Ppn) e a capo del Centro di ricerca politica dell’Indonesia Institute of Sciences (Lipi) – istituto del governo indonesiano. L’esperta è coautrice del libro “Papua Road Map” (2009) ed in passato ha guidato il Papua Study Team del Lipi.
Manokwari, Sorong, Jayapura e Wamena: sono le città dove, a partire dal 19 agosto scorso, hanno avuto luogo alcuni degli episodi di violenza più gravi. Ad innescarli, le proteste della popolazione locale contro episodi di razzismo nei confronti di studenti papuani avvenuti a Surabaya e Malang (provincia di East Java) alcuni giorni prima. L’infiltrazione tra i manifestanti di gruppi indipendentisti ha alzato ulteriormente la tensione, poi sfociata in ripetuti scontri tra civili e forze di sicurezza, atti vandalici e persino decine di morti. I resoconti più tragici giungono da Wamena, nella reggenza di Jayawijaya, dove lo scorso 23 settembre centinaia di manifestanti hanno incendiato un ufficio governativo ed altri edifici: decine di persone sono rimaste intrappolate nelle fiamme ed hanno perso la vita.
Le autorità indonesiane affermano che le violenze nelle province di Papua e West Papua hanno una causa comune: “bufale” e fake news a carattere settario. “In Indonesia, il razzismo contro i papuani – spiega Adriana Elisabeth – è un fenomeno diffuso, di cui sono vittime non solo gli studenti ma anche le persone comuni. Queste portano lo stigma del separatismo e in più non assomigliano fisicamente al resto dei concittadini. Dal punto di vista degli indipendentisti, la discriminazione è cominciata sin dalla controversa annessione del territorio all’Indonesia attraverso l’Act of Free Choice, nel 1969. Da allora, ogni iniziativa di Jakarta è vista con sospetto”.
Quasi tutte le vittime del rogo a Wamena erano migranti interni, non papuani ed originari di altre isole. La tragedia ha innescato l’esodo della loro comunità da Papua. “Ma la violenza – dichiara la politologa – non ha nulla a che fare con problematiche settarie. Prima di questo episodio, le relazioni tra papuani e non papuani [i primi a maggioranza cristiana, i secondi islamica ndr] sono sempre state molto armoniose. Se guardiamo alla storia, ad inviare la prima missione cristiana a Papua (sull’isola di Mansinam, Manokwari) è stato Nuku, sultano di Tidore, nelle Molucche. Ciò indica che l'armonia sociale tra le comunità religiose ha solide basi. Parlare di identità papuana significa comprendere anche valori islamici”.
Sin dall'annessione, nella regione di Papua è in corso un'insurrezione di basso profilo per l'indipendenza, condotta da gruppi armati come il National Liberation Army of West Papua (Tpnpb) ed il Free Papua Movement (Opm). Nell’aprile 2018, Joko Widodo è stato il primo presidente indonesiano a visitare il remoto territorio. Le tribù locali ed i loro leader hanno più volte presentato denunce contro Jakarta per l'eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, mentre attivisti denunciano frequenti violazioni dei diritti umani.
Per Adriana Elisabeth, il ciclo di violenze e violazioni dei diritti umani a Papua “rimane difficile da risolvere, perché vi sono diverse prospettive tra governo (militari e politici) e papuani. Mentre questi ultimi chiedono alle autorità di consegnare alla giustizia i responsabili di tali violazioni, soprattutto soldati e poliziotti, i primi sostengono che la sicurezza del territorio dev’essere la priorità”.
“Il governo – conclude la politologa – deve comprendere meglio lo spettro dei diritti umani; non fermarsi agli aspetti politici, ma interessarsi alla realtà economica ed a tematiche socioculturali. Molti episodi di abusi non riguardano politica e sicurezza, ma sono legati ai diritti sulla terra appartenente alla comunità locale. Gli attori economici, in particolare investitori e industrie, di solito si disinteressano delle tradizioni papuane, e prediligono i guadagni delle loro attività”.
(PF)