23/12/2021, 12.14
VATICANO
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Papa: una Chiesa testimone di umiltà in cammino verso il sinodo

“Partecipazione, missione e comunione sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa”. “Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità”.

Città del Vaticano (AsiaNews) – L’umiltà, senza la quale non si può incontrare Dio e neppure il fratello e la sorella che ci vivono accanto, come “stile” dell’ormai iniziato cammino sinodale che deve dare forma a una “Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa”, caratterizzata sempre più da partecipazione, missione e comunione. Anche quest’anno l’incontro con la Curia romana per lo scambio degli auguri di Natale è stato occasione per il Papa di una riflessione “ad intra”, alla realtà attuale e prospettica della Chiesa.

Il lungo discorso di Francesco è partito dalla considerazione che “se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, penso che la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare”: “uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire” il Figlio di Dio che “che non si sottrae all’umiltà di ‘scendere’ nella storia facendosi uomo, facendosi bambino, fragile, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia (cfr Lc 2,16)”.

Gesù, dunque, “ci ricorda una verità scomoda e spiazzante: ‘A cosa serve guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?’ (cfr Mc 8,36). Questa è la pericolosa tentazione – l’ho richiamato altre volte – della mondanità spirituale, che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità”.

“Quante volte – ha detto ancora il Papa - sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è ‘sudore della nostra fronte’. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di ‘quello che si dovrebbe fare’ – il peccato del ‘si dovrebbe fare’ – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele» (n. 96). L’umiltà è la capacità di saper abitare senza disperazione, con realismo, gioia e speranza, la nostra umanità; questa umanità amata e benedetta dal Signore. L’umiltà è comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità. Gesù ci insegna a guardare la nostra miseria con lo stesso amore e tenerezza con cui si guarda un bambino piccolo, fragile, bisognoso di tutto. Senza umiltà cercheremo rassicurazioni, e magari le troveremo, ma certamente non troveremo ciò che ci salva, ciò che può guarirci. Le rassicurazioni sono il frutto più perverso della mondanità spirituale, che rivela la mancanza di fede, di speranza e di carità, e diventano incapacità di saper discernere la verità delle cose”.

E anche per l’iniziato cammino sinodale, “solo l’umiltà può metterci nella condizione giusta per poterci incontrare e ascoltare, per dialogare e discernere”, per fare spazio alla convinzione che siamo tutti figli di un solo Dio, “Padre di tutti”. “‘Tutti’ non è una parola fraintendibile! Il clericalismo che come tentazione serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire. Il Sinodo è l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio”.

In tale logica, la Curia “non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza, e proprio per questo acquista sempre più autorevolezza ed efficacia quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale alla quale anch’essa è chiamata”. “Se la Chiesa percorre la via della sinodalità, noi per primi dobbiamo convertirci a uno stile diverso di lavoro, di collaborazione, di comunione. E questo è possibile solo attraverso la strada dell’umiltà”.

In proposito Francesco ha richiamato le tre parole-chiave: partecipazione, comunione e missione indicate in occasione dell’apertura del cammino sinodale.

“Innanzitutto la partecipazione. Essa dovrebbe esprimersi attraverso uno stile di corresponsabilità. Certamente nella diversità di ruoli e ministeri le responsabilità sono diverse, ma sarebbe importante che ognuno si sentisse partecipe, corresponsabile del lavoro senza vivere la sola esperienza spersonalizzante dell’esecuzione di un programma stabilito da qualcun altro”.

“La seconda parola è comunione. Essa non si esprime con maggioranze o minoranze, ma nasce essenzialmente dal rapporto con Cristo. Non avremo mai uno stile evangelico nei nostri ambienti se non rimettendo Cristo al centro. Molti di noi lavorano insieme, ma ciò che fortifica la comunione è poter anche pregare insieme, ascoltare insieme la Parola, costruire rapporti che esulano dal semplice lavoro e rafforzano i legami di bene aiutandoci a vicenda. Senza questo rischiamo di essere soltanto degli estranei che collaborano, dei concorrenti che cercando di posizionarsi meglio o, peggio ancora, lì dove si creano dei rapporti, essi sembrano prendere più la piega della complicità per interessi personali dimenticando la causa comune che ci tiene insieme. La complicità crea divisioni, fazioni e nemici; la collaborazione esige la grandezza di accettare la propria parzialità e l’apertura al lavoro in gruppo, anche con quelli che non la pensano come noi. Nella complicità si sta insieme per ottenere un risultato esterno. Nella collaborazione si sta insieme perché si ha a cuore il bene dell’altro e, pertanto, di tutto il Popolo di Dio che siamo chiamati a servire”.

La terza parola è missione. “Essa è ciò che ci salva dal ripiegarci su noi stessi”. Essa comporta una “Chiesa in movimento di uscita da sé”, centrata in Gesù Cristo. “Solo un cuore aperto alla missione fa sì che tutto ciò che facciamo ad intra e ad extra sia sempre segnato dalla forza rigeneratrice della chiamata del Signore. E la missione sempre comporta passione per i poveri, cioè per i ‘mancanti’: coloro che ‘mancano’ di qualcosa non solo in termini materiali, ma anche spirituali, affettivi, morali. Chi ha fame di pane e chi ha fame di senso è ugualmente povero. La Chiesa è invitata ad andare incontro a tutte le povertà, ed è chiamata a predicare il Vangelo a tutti perché tutti, in un modo o in un altro, siamo poveri, siamo mancanti. Ma anche la Chiesa va loro incontro perché essi ci mancano: ci manca la loro voce, la loro presenza, le loro domande e discussioni. La persona con cuore missionario sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo. La missione ci rende vulnerabili, ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre di nuovo la gioia del Vangelo. Partecipazione, missione e comunione sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa. Diceva Henri de Lubac: «Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva. […] Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri […]; è difficile, o piuttosto impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica, la traccia adorabile dell’umiltà di Dio» (Meditazioni sulla Chiesa, 352)”.

“In conclusione desidero augurare a voi e a me per primo, di lasciarci evangelizzare dall’umiltà del Natale, del presepe, della povertà ed essenzialità in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo”. “Solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza. Siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità. Possa il Signore farcene dono a partire dalla primordiale manifestazione dello Spirito dentro di noi: il desiderio. Ciò che non abbiamo, possiamo cominciare almeno a desiderarlo. E il desiderio è già lo Spirito all’opera dentro ciascuno di noi. Buon Natale a tutti!”. (FP)

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