Papa: “chieder perdono per le persone e le istituzioni che chiudono la porta” ai rifugiati
Città del Vaticano (AsiaNews) – Un invito a “chieder perdono per le persone e le istituzioni che chiudono la porta” ai rifugiati, e un altro ad “accogliere con animo aperto” l’enciclica sulla “casa comune” che sarà pubblicata domani e che è “un appello alla responsabilità in base al compito che Dio ha dato all’essere umano nella creazione di coltivare e custodire il giardino’" hanno conclusa l’udienza generale di oggi, dedicata da papa Francesco alla necessità che “i Pastori e tutti i cristiani esprimano in modo più concreto il senso della fede nei confronti dell’esperienza famigliare del lutto”.
Dei rifugiati il Papa ha parlato ricordando che sabato prossimo sarà celebrata la giornata a essi dedicata dall’Onu: “tanti fratelli e sorelle che cercano rifugio lontano dalla loro terra, che cercano una casa dove poter vivere senza timore” per i quali ha chiesto che "la comunità internazionale agisca in maniera concorde e efficace per prevenire le cause delle migrazioni forzate”.
Quanto all’enciclica, “che si pone nella linea della dottrina sociale della Chiesa”, Francesco ha affermato che la “casa comune”, che è il creato “si sta rovinando e ciò danneggia tutti, specialmente i più poveri”.
La catechesi per l’udienza generale è stata invece dedicata alla fede che “il lavoro dell’amore di Dio è più forte del lavoro della morte” ci protegga “dalla visione nichilista della morte, come pure dalle false consolazioni del mondo, così che la verità cristiana”, come ha detto Benedetto XVI “non rischi di mischiarsi con mitologie di vario genere”, cedendo ai riti della superstizione.
“La morte – ha detto alle 30mila persone presenti in piazza san Pietro - è un’esperienza che riguarda tutte le famiglie, senza eccezione alcuna. Fa parte della vita; eppure, quando tocca gli affetti familiari, la morte non riesce mai ad apparirci naturale. Per i genitori, sopravvivere ai propri figli è qualcosa di particolarmente straziante, che contraddice la natura elementare dei rapporti che danno senso alla famiglia stessa. La perdita di un figlio o di una figlia è come se fermasse il tempo: si apre una voragine che inghiotte il passato e anche il futuro”. È “uno schiaffo alle promesse, ai doni e sacrifici d’amore gioiosamente consegnati alla vita che abbiamo fatto nascere. Tante volte vengono a messa a Santa Marta genitori con la foto di un figlio, di una figlia, bambino, ragazzo, ragazza, e mi dicono: ‘Se n’è andata’. E lo sguardo è tanto addolorato. La morte tocca e quando è un figlio tocca profondamente”.
Qualcosa di simile “patisce anche il bambino che rimane solo, per la perdita di un genitore, o di entrambi. Quella domanda: ‘Ma dov’è papà? Dov’è mamma?’… Questa domanda che copre un’angoscia nel cuore del bambino o la bambina. Rimane solo. Il vuoto dell’abbandono che si apre dentro di lui è tanto più angosciante per il fatto che non ha neppure l’esperienza sufficiente per “dare un nome” a quello che è accaduto. ‘Quando torna papà? Quando torna mamma?’. Cosa si risponde? E il bambino soffre”.
“In questi casi la morte è come un buco nero che si apre nella vita delle famiglie e a cui non sappiamo dare alcuna spiegazione. E a volte si giunge persino a dare la colpa a Dio. “Io li capisco, si arrabbia con Dio, bestemmia… ‘Perché mi hai tolto il figlio, la figlia? Ma Dio non c’è, Dio non esiste! Perché ha fatto questo?’…”.
“Ma la morte fisica ha dei ‘complici’ che sono anche peggiori di lei, e che si chiamano odio, invidia, superbia, avarizia” e che la rendono “ancora più dolorosa e ingiusta” perché gli “affetti familiari appaiono come le vittime predestinate e inermi di queste potenze ausiliarie della morte, che accompagnano la storia dell’uomo. Pensiamo all’assurda ‘normalità’ con la quale, in certi momenti e in certi luoghi, gli eventi che aggiungono orrore alla morte sono provocati dall’odio e dall’indifferenza di altri esseri umani. Il Signore ci liberi dall’abituarci a questo”.
Ma nell’ottica della fede “la morte non ha l’ultima parola”. Tutte le volte “che la famiglia nel lutto – anche terribile – trova la forza di custodire la fede e l’amore che ci uniscono a coloro che amiamo, essa impedisce già ora, alla morte, di prendersi tutto. Il buio della morte va affrontato con un più intenso lavoro di amore”. “Nella luce della Risurrezione del Signore, che non abbandona nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato, noi possiamo togliere alla morte il suo ‘pungiglione’, come diceva l’apostolo Paolo; possiamo impedirle di avvelenarci la vita, di rendere vani i nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio”. Nella fede “possiamo consolarci l’un l’altro, sapendo che il Signore ha vinto la morte una volta per tutte. I nostri cari non sono scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono nelle mani buone e forti di Dio”. “Se ci lasciamo sostenere da questa fede, l’esperienza del lutto può generare una più forte solidarietà dei legami famigliari, una nuova apertura al dolore delle altre famiglie, una nuova fraternità con le famiglie che nascono e rinascono nella speranza”.
“Non si deve negare il diritto al pianto, dobbiamo piangere nel lutto!”, anche Gesù “scoppiò in pianto” per il grave lutto di una famiglia che amava. “Possiamo piuttosto attingere dalla testimonianza semplice e forte di tante famiglie che hanno saputo cogliere, nel durissimo passaggio della morte, anche il sicuro passaggio del Signore, crocifisso e risorto, con la sua irrevocabile promessa di risurrezione dei morti. Il lavoro dell’amore di Dio è più forte del lavoro della morte. E’ di quell’amore, è proprio di quell’amore, che dobbiamo farci “complici” operosi, con la nostra fede! E ricordiamo quel gesto di Gesù: ‘E Gesù lo restituì a sua madre’, così farà con tutti i nostri cari e con noi quando ci incontreremo, quando la morte sarà definitivamente sconfitta in noi. Lei è sconfitta dalla croce di Gesù. Gesù ci restituirà in famiglia a tutti”.
22/06/2015