Papa negli Usa: Senza la famiglia, la Chiesa non esisterebbe. Dio piange per i delitti della pedofilia
Philadelphia (AsiaNews) – La famiglia per la Chiesa “non è una preoccupazione, ma la felice conferma della benedizione di Dio al capolavoro della creazione”. E senza la famiglia “anche la Chiesa non esisterebbe: non potrebbe essere quello che deve essere, ossia segno e strumento dell’unità del genere umano”. Un'alleanza "messa a rischio" da chi commette crimini contro i bambini "crimini che mi perseguitano e mi riempiono di vergogna". Lo ha detto papa Francesco ai circa 300 vescovi ospiti dell’VIII Incontro mondiale delle Famiglie, riuniti nella Cappella del Saint Charles Borromeo Seminary a Philadelphia. In attesa di celebrare la messa conclusiva dell’Incontro, questa notte, il pontefice condivide “alcune riflessioni pastorali” con i presuli.
Lo stesso Francesco ha annunciato ai presuli di aver incontrato un gruppo di vittime della pedofilia: "Ho pregato con loro. Ho espresso vergogna per i gravi danni causati: Mi dispiace profondamente, Dio stesso piange. I reati di abusi sessuali contro minori non possono essere mantenuti in segreto per più tempo", ha detto promettendo "l'impegno alla vigilanza della Chiesa per proteggere i minori" e promettendo che "tutti i responsabili dovranno renderne conto". Il Papa ha assicurato a ogni vittima e alle loro famiglie "la nostra gratitudine per il loro immenso coraggio" nel denunciare gli abusi subiti. Poi ha rinnovato l'impegno suo e della Chiesa perché tutte le vittime siano ascoltate e trattate con giustizia, i colpevoli puniti e i crimini combattuti con una efficace opera di prevenzione nella Chiesa e nella società
In un lungo discorso, inframmezzato da tanti interventi a braccio, Francesco sottolinea la necessità dell’incontro pastorale con le famiglie “finestre della Chiesa con il mondo” e ricorda il primo compito dei vescovi: “Pregare e annunciare. Da qui nasce la forza per il resto”. Il mondo, un tempo animato da “negozi di quartiere”, oggi vede l’emergere dei supermercati “dove ognuno entra e compra quello che preferisce. Questo non può funzionare nel campo dei sentimenti e dell’affettività”. Ai giovani “annunciamo l’audacia della scelta della famiglia”. Di seguito il testo completo del discorso del Papa, con le aggiunte a braccio.
Sono lieto di avere l’opportunità di condividere questi momenti di riflessione pastorale con voi, nella gioiosa circostanza dell’Incontro Mondiale delle Famiglie.
La famiglia, infatti, per la Chiesa, non è prima di tutto un motivo di preoccupazione, ma la felice conferma della benedizione di Dio al capolavoro della creazione. Ogni giorno, in tutti gli angoli del pianeta, la Chiesa ha motivo di rallegrarsi con il Signore per il dono di quel popolo numeroso di famiglie che, anche nelle prove più dure, onorano le promesse e custodiscono la fede!
Ecco, direi che il primo slancio pastorale che questo impegnativo passaggio d’epoca ci chiede è proprio un passo deciso nella linea di questo riconoscimento. La stima e la gratitudine devono prevalere sul lamento, nonostante tutti gli ostacoli che abbiamo di fronte. La famiglia è il luogo fondamentale dell’alleanza della Chiesa con la creazione di Dio. Senza la famiglia, anche la Chiesa non esisterebbe: non potrebbe essere quello che deve essere, ossia segno e strumento dell’unità del genere umano (cfr Lumen gentium, 1).
Naturalmente, la nostra comprensione, plasmata sull’integrazione della forma ecclesiale della fede e dell’esperienza coniugale della grazia, benedetta dal sacramento, non deve farci dimenticare la profonda trasformazione del quadro epocale, che incide sulla cultura sociale – e ormai anche giuridica – dei legami familiari e che ci coinvolge tutti, credenti e non credenti. Il cristiano non è “immune” dai cambiamenti del suo tempo, e questo mondo concreto, con le sue molteplici problematiche e possibilità, è il luogo in cui dobbiamo vivere, credere e annunciare.
Tempo fa, vivevamo in un contesto sociale in cui le affinità dell’istituzione civile e del sacramento cristiano erano corpose e condivise: erano tra loro connesse e si sostenevano a vicenda. Ora non è più così. Per descrivere la situazione attuale sceglierei due immagini tipiche delle nostre società: da una parte, le note botteghe, piccoli negozi dei nostri quartieri, e dall’altra i grandi supermercati o centri commerciali.
Qualche tempo fa si poteva trovare in un medesimo negozio tutte le cose necessarie per la vita personale e familiare – certo esposte poveramente, con pochi prodotti e quindi con poca possibilità di scelta. C’era un legame personale tra il negoziante e i clienti del vicinato. Si vendeva a credito, cioè c’era fiducia, conoscenza, vicinanza. Uno si fidava dell’altro. Trovava il coraggio di fidarsi. In molti luoghi lo si conosce come “la bottega del quartiere”.
In questi ultimi decenni si sono sviluppati e ampliati negozi di altro tipo: i centri commerciali. Il mondo pare che sia diventato un grande supermercato, dove la cultura ha acquisito una dinamica concorrenziale. Non si vende più a credito, non ci si può fidare degli altri. Non c’è legame personale, relazione di vicinanza. La cultura attuale sembra stimolare le persone a entrare nella dinamica di non legarsi a niente e a nessuno. Non dare fiducia e non fidarsi. Perché la cosa più importante oggi sembrerebbe essere andare dietro all’ultima tendenza o attività. E questo anche a livello religioso. Ciò che è importante oggi lo determina il consumo. Consumare relazioni, consumare amicizie, consumare religioni, consumare, consumare… Non importa il costo né le conseguenze. Un consumo che non genera legami, un consumo che va al di là delle relazioni umane. I legami sono un mero “tramite” nella soddisfazione delle “mie necessità”. Il prossimo con il suo volto, con la sua storia, con i suoi affetti cessa di essere importante.
Questo comportamento genera una cultura che scarta tutto ciò che “non serve” più o “non soddisfa” i gusti del consumatore. Abbiamo fatto della nostra società una vetrina multiculturale amplissima legata solamente ai gusti di alcuni “consumatori”, e, d’altro canto, sono tanti, tantissimi gli altri, quelli che «mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Mt 15,27).
Questo produce una grande ferita, una ferita culturale. Oserei dire che una delle principali povertà o radici di tante situazioni contemporanee consiste nella solitudine radicale a cui si trovano costrette tante persone. Inseguendo un “mi piace”, inseguendo l’aumento del numero dei “followers” in una qualsiasi rete sociale, così le persone seguono la proposta offerta da questa società contemporanea. Una solitudine timorosa dell’impegno in una ricerca sfrenata di sentirsi riconosciuti.
Dobbiamo condannare i nostri giovani per essere cresciuti in questa società? Dobbiamo scomunicarli perché vivono in questo mondo? Bisogna che ascoltino dai loro pastori frasi come: ‘Una volta era meglio’; ‘il mondo è un disastro e, se continua così, non sappiamo dove andremo a finire’? Questo mi suona come un tango argentino… No, non credo che sia questa la strada. Noi pastori, sulle orme del Pastore, siamo invitati a cercare, accompagnare, sollevare, curare le ferite del nostro tempo. Guardare la realtà con gli occhi di chi sa di essere chiamato al movimento, alla conversione pastorale. Il mondo oggi ci chiede con insistenza questa conversione pastorale. «E’ vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugi, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno» (Evangelii gaudium, 23). Il Vangelo non è un prodotto di consumo. Non entra in questa cultura del consumismo.
Sbaglieremmo se interpretassimo che questa “cultura” del mondo attuale è solo disaffezione per il matrimonio e la famiglia in termini di puro e semplice egoismo. I giovani di questo tempo sono forse diventati irrimediabilmente tutti pavidi, deboli, inconsistenti? Non cadiamo nella trappola. Molti giovani, nel quadro di questa cultura dissuasiva, hanno interiorizzato una specie di inconscia soggezione. E sono paralizzati nei confronti degli slanci più belli e più alti, e anche più necessari. Ci sono tanti che rimandano il matrimonio in attesa delle condizioni di benessere ideali. Intanto la vita si consuma, senza sapore. Perché la sapienza dei veri sapori della vita matura con il tempo, come frutto del generoso investimento della passione, dell’intelligenza, dell’entusiasmo.
Nel congresso pochi giorni fa stavo dicendo che viviamo una cultura che spinge i giovani a non fondare una famiglia. Alcuni per mancanza di mezzi materiali per farli. Altri perché hanno tanti mezzi, che stanno bene così come stanno. Questa è la tentazione di non fondare una famiglia.
Come pastori, noi vescovi siamo chiamati a raccogliere le forze e a rilanciare l’entusiasmo per la nascita di famiglie più pienamente rispondenti alla benedizione di Dio, secondo la loro vocazione! Dobbiamo investire le nostre energie non tanto nello spiegare e rispiegare i difetti dell’attuale condizione odierna e i pregi del cristianesimo, quanto piuttosto nell’invitare con franchezza i giovani ad essere audaci nella scelta del matrimonio e della famiglia. A Buenos Aires quante donne si lamentavano: “Mio figlio ha più di 30 anni e non so che fare, non si sposa… Signora, non gli stiri più le camicie”. Bisogna entusiasmare questi giovani che corrono questo rischio, un rischio di vita!
Anche qui ci vuole una santa parresia! Perché non ti sposi? Mah, ho una fidanzata ma non so… Stiamo mettendo da parte i soldi… La santa parresia è accompagnarli e farli maturare nel Vangelo. Un cristianesimo che “si fa” poco nella realtà e “si spiega” infinitamente nella formazione, sta in una sproporzione pericolosa. Direi in un vero e proprio circolo vizioso. Il pastore deve mostrare che il Vangelo della famiglia è davvero “buona notizia” in un mondo dove l’attenzione verso sé stessi sembra regnare sovrana! Non si tratta di fantasia romantica: la tenacia nel formare una famiglia e nel portarla avanti trasforma il mondo e la storia. Sono le famiglie che trasformano il mondo e la storia.
Il pastore annuncia serenamente e appassionatamente la Parola di Dio, incoraggia i credenti a puntare in alto. Egli renderà capaci i suoi fratelli e le sue sorelle dell’ascolto e della pratica della promessa di Dio, che allarga anche l’esperienza della maternità e della paternità nell’orizzonte di una nuova “familiarità” con Dio (cfr Mc 3,31-35). Il pastore vigila sul sogno, sulla vita, sulla crescita delle sue pecore. Questo “vigila” non nasce dal fare discorsi, ma dalla cura pastorale. E’ capace di vigilare solo chi sa stare “in mezzo”, chi non ha paura delle domande, del contatto, dell’accompagnamento. Il pastore vigila prima di tutto con la preghiera, sostenendo la fede del suo popolo, trasmettendo fiducia nel Signore, nella sua presenza. Il pastore rimane sempre vigilante aiutando ad alzare lo sguardo quando compaiono lo scoraggiamento, la frustrazione o le cadute. Sarebbe bene chiederci se nel nostro ministero pastorale sappiamo “perdere” tempo con le famiglie. Sappiamo stare con loro, condividere le loro difficoltà e le loro gioie?
Il vivere lo spirito di questa gioiosa familiarità con Dio, e diffonderne l’emozionante fecondità evangelica, è in primo luogo il tratto fondamentale dello stile di vita del Vescovo: pregare e annunciare il Vangelo (cfr At 6,4). Sempre mi ha colpito quando al principio, nei primi tempi della Chiesa, qualcuno si lamentava perché le vedove e gli orfani non erano ben assistiti. Gli apostoli non sapevano a chi dare i resti, e li trascuravano. Quindi si sono riuniti e hanno inventato i diaconi. E lo Spirito Santo li ha ispirati a costituire i diaconi. E quando Pietro annuncia questa decisione, spiega: “Sceglieremo degli uomini per questa questione. A noi toccano due cose: la preghiera e la predicazione”. Qual è il primo compito del vescovo? Pregare, pregare. Il secondo compito, che va di pari passo, è predicare. Questo ci aiuta, questa definizione dogmatica: ci aiuta, perché definisce quale sia il ruolo del vescovo. Il vescovo è costituito per la cura pastorale, ma prima di tutto la cura passa per la preghiera e l’annuncio. Poi viene il resto, se rimane tempo.
Noi stessi, dunque, accettando umilmente l’apprendistato cristiano delle virtù familiari del popolo di Dio, assomiglieremo sempre di più a padri e madri (come Paolo, cfr 1 Ts 2,7.11), evitando di trasformarci in persone che hanno semplicemente imparato a vivere senza famiglia. Allontanarci dalla famiglia ci porta a essere persone che hanno imparato a vivere senza famiglia. Questo è brutto! Il nostro ideale, in effetti, non è quello di essere senza affetti! Il buon Pastore rinuncia ad affetti familiari propri per destinare tutte le sue forze, e la grazia della sua speciale chiamata, alla benedizione evangelica degli affetti dell’uomo e della donna che danno vita al disegno della creazione di Dio, incominciando da quelli perduti, abbandonati, feriti, devastati, avviliti e privati delle loro dignità.
Questa consegna totale all’agape di Dio non è certo una vocazione estranea alla tenerezza e al voler bene! Ci basterà guardare a Gesù, per capire questo (cfr Mt 19,12). La missione del buon Pastore nello stile di Dio – solo Dio può autorizzarlo, non la sua presunzione! – imita in tutto e per tutto lo stile affettivo del Figlio nei confronti del Padre, che si riflette nella tenerezza della sua consegna: in favore, e per amore, degli uomini e delle donne della famiglia umana.
Nell’ottica della fede, questo è un argomento prezioso. Il nostro ministero ha bisogno di sviluppare l’alleanza della Chiesa e della famiglia. Lo sottolineo: sviluppare l’alleanza della Chiesa con la famiglia. Altrimenti inaridisce, e la famiglia umana si farà irrimediabilmente distante, per nostra colpa, dalla Lieta Notizia donata da Dio e andrà al supermercato di moda a comprare i prodotti che in quel momento gli piacciono di più.
Se saremo capaci di questo rigore degli affetti di Dio, usando infinita pazienza, e senza risentimento, verso i solchi non sempre lineari in cui dobbiamo seminarli, davvero dobbiamo seminare molte volte in questi solchi deviati, anche una donna samaritana con cinque “non-mariti” si scoprirà capace di testimonianza. E per un giovane ricco che sente tristemente di doversi pensare ancora con calma, un maturo pubblicano si precipiterà giù dall’albero e si farà in quattro per i poveri ai quali – fino a quel momento – non aveva mai pensato.
Dio ci conceda il dono di questa nuova prossimità tra la famiglia e la Chiesa. Ne ha bisogno la famiglia, ne ha bisogno la Chiesa, ne abbiamo bisogno noi pastori. La famiglia è il nostro alleato, la nostra finestra sul mondo, la famiglia è l’evidenza, la prova di una benedizione irrevocabile di Dio destinata a tutti i figli di questa storia difficile e bellissima della creazione che Dio ci ha chiesto di servire!
25/08/2018 08:05