Papa in Messico: il reinserimento dei carcerati si fa eliminando le cause che ammalano la società
Francesco a Ciudad Juárez ha visitato i detenuti. “Il problema della sicurezza non si risolve solamente incarcerando, ma è un appello a intervenire per affrontare le cause strutturali e culturali dell’insicurezza che colpiscono l’intero tessuto sociale”. “Il reinserimento sociale inizia con la frequenza alla scuola di tutti i nostri figli e con un lavoro degno per le loro famiglie, creando spazi pubblici per il tempo libero e la ricreazione, abilitando le istanze di partecipazione civica, i servizi sanitari, l’accesso ai servizi basici”.
Ciudad Juárez (AsiaNews) – Il reinserimento di chi è stato in carcere non comincia in prigione. ma “fuori”, “nelle vie della città”, “creando un sistema che potremmo chiamare di salute sociale, vale a dire, una società che cerchi di non ammalarsi”, un “sistema di salute sociale che faccia in modo di generare una cultura che sia efficace e che cerchi di prevenire quelle situazioni, quelle vie che finiscono per ferire e deteriorare il tessuto sociale”. Ad ascoltare queste parole di Francesco, alle 10.30 (ora locale) circa 700 dei tremila detenuti del “Centro de Readaptación Social estatal n. 3” (CeReSo n. 3) di Ciudad Juárez. Il Papa saluta un gruppo di familiari (nella foto) e uno ad uno, una cinquantine di detenuti.
L’ultima tappa della visita del Papa in Messico è emblematica: questa è la città simbolo del narcotraffico, dei femminicidi e dello sfruttamento sessuale, ponte di passaggio per i migranti latinoamericani che cercano di superare illegalmente il confine per andare negli Stati Uniti. E qui alle 16 il Papa celebrerà l’ultima messa “messicana”, a circa 80 metri dalla sorvegliatissima rete metallica che segna il confine con gli Stati Uniti. Significativamente ci saranno fedeli da una parte e dall’altra.
In questo carcere - parte di un progetto di riqualificazione degli istituti di pena dello Stato di Chihuahua, che hanno ottenuto il riconoscimento di standard internazionali – Francesco ha salutato i detenuti dicendo: “non potevo partire senza venire a salutarvi, senza celebrare il Giubileo della Misericordia con voi”.
“Celebrare il Giubileo della misericordia con voi – ha detto ancora - è ricordare il cammino urgente che dobbiamo intraprendere per rompere i giri viziosi della violenza e della delinquenza. Già abbiamo perso diversi decenni pensando e credendo che tutto si risolve isolando, separando, incarcerando, togliendosi i problemi di torno, credendo che questi mezzi risolvano veramente i problemi. Ci siamo dimenticati di concentrarci su quella che realmente dev’essere la nostra preoccupazione: la vita delle persone; la loro vita, quella delle loro famiglie, quella di coloro che pure hanno sofferto a causa di questo giro vizioso della violenza. La misericordia divina ci ricorda che le carceri sono un sintomo di come stiamo come società, in molti casi sono un sintomo di silenzi e omissioni provocate dalla cultura dello scarto. Sono un sintomo di una cultura che ha smesso di scommettere sulla vita; di una società che è andata abbandonando i suoi figli”.
“La misericordia ci ricorda che il reinserimento non comincia qui tra queste pareti, ma che comincia prima, ‘fuori’, nelle vie della città. Il reinserimento o la riabilitazione comincia creando un sistema che potremmo chiamare di salute sociale, vale a dire, una società che cerchi di non ammalarsi inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto lo spettro sociale. Un sistema di salute sociale che faccia in modo di generare una cultura che sia efficace e che cerchi di prevenire quelle situazioni, quelle vie che finiscono per ferire e deteriorare il tessuto sociale”.
“A volte potrebbe sembrare che le carceri si propongano di mettere le persone in condizione di continuare a commettere delitti, più che a promuovere processi di riabilitazione che permettano di far fronte ai problemi sociali, psicologici e familiari che hanno portato una persona ad un determinato atteggiamento. Il problema della sicurezza non si risolve solamente incarcerando, ma è un appello a intervenire per affrontare le cause strutturali e culturali dell’insicurezza che colpiscono l’intero tessuto sociale. La preoccupazione di Gesù per gli affamati, gli assetati, i senza tetto o i detenuti (Mt 25,34-40) intendeva esprimere le viscere di misericordia del Padre, ed essa diventa un imperativo morale per tutta la società che desidera disporre delle condizioni necessarie per una migliore convivenza. Nella capacità di una società di includere i suoi poveri, i suoi malati o i suoi detenuti risiede la possibilità per essi di poter sanare le loro ferite ed essere costruttori di una buona convivenza. Il reinserimento sociale inizia con la frequenza alla scuola di tutti i nostri figli e con un lavoro degno per le loro famiglie, creando spazi pubblici per il tempo libero e la ricreazione, abilitando le istanze di partecipazione civica, i servizi sanitari, l’accesso ai servizi basici, per nominare solo alcune misure.
Celebrare il Giubileo della misericordia con voi significa imparare a non rimanere prigionieri del passato, di ieri. È imparare ad aprire la porta al futuro, al domani: è credere che le cose possano essere differenti. Celebrare il Giubileo della misericordia con voi è invitarvi ad alzare la testa e a lavorare per ottenere tale desiderato spazio di libertà. Sappiamo che non si può tornare indietro, sappiamo che quel che è fatto è fatto; perciò ho voluto celebrare con voi il Giubileo della misericordia, poiché questo non significa che non ci sia la possibilità di scrivere una nuova storia d’ora in avanti. Voi soffrite il dolore della caduta, sentite il pentimento per i vostri atti e so che in tanti casi, in mezzo a grandi limitazioni, cercate di ricostruire la vostra vita a partire dalla solitudine. Avete conosciuto la forza del dolore e del peccato; non dimenticatevi che avete a disposizione anche la forza della risurrezione, la forza della misericordia divina che fa nuove tutte le cose. Ora vi può toccare la parte più dura, più difficile, però, perché possa essere quella che generi un più grande frutto, impegnatevi fin da qui dentro a capovolgere le situazioni che generano ulteriore esclusione. Parlate con i vostri cari, raccontate loro la vostra esperienza, aiutate a frenare il giro vizioso della violenza e dell’esclusione. Chi ha sofferto profondamente il dolore e, potremmo dire, ‘ha sperimentato l’inferno’ può diventare un profeta nella società. Lavorate perché questa società che usa e getta non continui a mietere vittime”.
18/02/2016 08:48