04/08/2017, 10.06
FILIPPINE
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P. Sebastiano D'Ambra: missione 'possibile' a Mindanao, fra cristiani e musulmani

I weekend dell'amicizia, gli incontri tra i catechisti e i maestri delle madrasse, sono solo alcune delle iniziative messe in campo dal movimento Silsilah.  Non scoraggiarsi nemmeno quando  a scuola si sente un ragazzo musulmano dire alla maestra: “Sai che noi possiamo uccidere i cristiani?” Il ricordo dei confratelli del Pime, Salvatore Carzedda e Antimo Villano, è uno stimolo ad andare avanti. Dopo 500 anni di storia nelle Filippine (nel 2021) i cristiani dovrebbero capire che la devozione non basta.

Roma (AsiaNews) - Dopo 500 anni di storia i cristiani filippini devono capire che la fede non vive solo di eredità e tradizione. Fa suonare la sveglia padre Sebastiano D’Ambra, 75 anni, 51 di sacerdozio, da 40 a Mindanao (Filippine), in questi giorni di passaggio a Roma. Ha dedicato la sua vita a una missione impossibile, almeno secondo alcuni: far incontrare musulmani e cattolici, riscoprendo il legame che li conduce all’unico Dio. Papa Francesco la definisce la “cultura dell’incontro”. “Noi nelle Filippine parliamo piuttosto di cultura del dialogo, perché la parola ‘‘incontro’’ (“encounter”) purtroppo rappresenta gli scontri armati fra i gruppi ribelli musulmani e militari”. Parole e vita. Il “legame” che attualizza il rapporto spirituale fra cristiani e musulmani si chiama "Silsilah", un termine preso dall’esperienza dei sufi, i mistici musulmani. E’ il nome del movimento sorto nel 1984, cui padre D’Ambra ha dedicato tutta la sua vita. Con i due suoi confratelli del Pime: Salvatore Carzedda, martire a Zamboanga  il 20 maggio 1992, e Antimo Villano, morto in Italia nel 2010 dopo aver affrontato la Sla.

Cosa le viene in mente se pensa a quando tutto è cominciato?

Mi ricordo di un insegnante che mi chiese: “Hai una vita sola, come intendi spenderla?”. Parole che sono rimaste scolpite nella mia memoria. Mi ricordo il dibattito sul Concilio Vaticano II. Il coinvolgimento di noi, giovani studenti, nell’evoluzione del dialogo interreligioso. Un fattore importante che spinse molti di noi a partire per il mondo. Mi ricordo dell’approdo nelle Filippine e i pregiudizi fra le varie parti della società, anche nei nostri confronti. Di lì nacque la mia volontà di mediare sempre. Anche in mezzo agli attentati.  Anche subendo esili in Italia.

All’inizio Silsilah non è stato capito, ma ora è molto apprezzato. Molti cristiani e musulmani stanno seguendo questo percorso. Come sono arrivati questi frutti?

E’ il movimento per il dialogo interreligioso più conosciuto nelle Filippine. Il suo cuore è rappresentato dall’Harmony Village a Zamboanga. Questo movimento punta al dialogo, partendo dalla spiritualità, sorretto da tre pilastri: Dio, gli altri e il creato. Per superare le barriere proponiamo degli esperimenti di convivenza fra cristiani e musulmani. Per cominciare un weekend al mese, fino a che non sbocciano le amicizie. Da ultimo organizziamo degli incontri tra catechisti cattolici e insegnanti delle madrasse, per riflettere sull’importanza di trasmettere il messaggio della pace ai giovani.

L’attuale clima, a livello internazionale, non sembra essere favorevole al dialogo…

Il dialogo è una sfida continua, nonostante gli ostacoli vecchi e nuovi. Quando arrivai ho conosciuto il Moro National Liberation Front a Zamboanga City con il suo lascito di eccidi e oltre 10mila case bruciate. Poi venne Abu Sayaf nel Mindanao. Ora siamo alle prese con le rivolte nel Marawi, dove non si è risolto di certo il problema con la cessazione del fuoco. I fattori in campo sono tanti: l’ideologia dello Stato islamico finanziata da tanti soldi che attira i giovani; l’atteggiamento del governo che non sa come affrontare l’emergenza e soprattutto la paura illogica che porta pregiudizi e violenza.

Quando si è trovato a contatto con questo tipo di violenza come si è comportato?

Sono siciliano, figlio della guerra. Il Vaticano II l’ho vissuto prima e dopo. Il dialogo era una cosa quasi negativa. Molti missionari nella storia sono stati degli eroi. Sentivo di dover esplorare delle nuove vie nella missione. Così quando sono arrivato in quello sperduto villaggio di musulmani, mi sono immedesimato e sono diventato parte di loro. Mi sono guadagnato il loro rispetto. Ho alzato la voce contro gli abusi dei militari nei confronti dei poveri e delle donne. Un atteggiamento che mi ha dato forza, in seguito sono stato chiamato come mediatore dai ribelli. Hanno provato a corrompermi con proposte indecenti. Hanno perfino tentato di farmi fuori. Mi dicevo: “I ribelli rischiano la loro vita per un’ideologia, perché non posso rischiare la mia per una missione di amore?”

Com’è finita?

E’ finita che sono dovuto rientrare in Italia. Negli anni 1981-1982 ho studiato al Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica di Roma. Lì ho elaborato l’idea del cammino spirituale comune fra cristiani e musulmani che poi ha rappresentato la base di Silsilah.

La sua storia personale, dunque, era soltanto all’inizio…

Tornato nelle Filippine, non ero più solo. L’idea di Silsilah si era trasformata in realtà: stava crescendo una comunità di uomini e donne che volevano vivere in pace. Perciò il movimento Abu Sayaff voleva che chiudessimo i battenti. Un crescendo di pressioni che infine portò all’uccisione di padre Salvatore. Sulla sua bara consegnammo una sorta di “certificato” di appartenenza a Silsilah. E in quella occasione emerse una sola voce: “Padayon” (“Andiamo avanti”). Ma per la seconda volta sono dovuto tornare in Italia, tra il 1992 e il 1995. In quegli anni a Catania, proprio dove abbiamo celebrato pochi giorni fa il 25° della morte di padre Salvatore, ho dato avvio al cammino di spiritualità che avevo conosciuto nelle Filippine: “Religioni in dialogo”. Così come nelle Filippine Silsilah ha generato il gruppo “Emmaus dialogue community”, la cui presidente oggi è Aminda Esano, una laica consacrata che è una vera trascinatrice. Sta anche nascendo un gruppo simile di musulmani che si chiama “Muslimah”. Possiamo dire che siamo nella fase di consolidamento della nostra esperienza, ma anche che siamo chiamati a fare di più.

Quali sono oggi gli ostacoli più evidenti per un’esperienza di dialogo?

Spesso si parla di dialogo, ma non c’è la convinzione profonda che possa avvenire. Ci sono espressioni dei musulmani nei confronti dei cristiani e viceversa che fanno parte di un background culturale che sembra insormontabile. Io stesso mi sono ritrovate appiccicate addosso delle etichette e dei pregiudizi. L’importante è non scoraggiarsi. Mai. Nemmeno quando oggi a scuola sentiamo un ragazzo musulmano dire alla maestra: “Sai che noi possiamo uccidere i cristiani?” E va sottolineato che l’ha sentito in famiglia.

Allora che dovrebbero fare i cristiani e i musulmani filippini?

Il cristianesimo filippino dopo 500 anni di storia (nel 2021) dovrebbe capire che una devozione che non va in profondità rende più vulnerabili. Di fronte al radicalismo islamico occorre attrezzarsi. Una fede diluita non è sufficiente. Ancora i cattolici si devono svegliare. Dovrebbero fare un esame di coscienza per comprendere che la fede non vive per eredità e per tradizione. L’Islam, invece, dovrebbe riflettere su quale contributo davvero vuole portare nel mondo. Forse il whaabismo? Il conflitto tra sunniti e sciti ad ogni latitudine e longitudine?

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