P. Samir di Amadiya: Il Papa è la voce dei profughi irakeni
Città del Vaticano (AsiaNews) – E’ ancora commosso e un po’ esaltato per aver potuto parlare con papa Francesco per almeno tre minuti. Ha potuto incontrarlo alla fine dell’udienza generale di due giorni fa. “Per me – racconta p. Samir - è stata un momento grande. Ho voluto incontrarlo per trasmettergli il messaggio dei cristiani del Kurdistan e dei profughi.
Ho detto al papa: La ringrazio per quanto ha fatto per i profughi e i cristiani dell’Iraq. Gli ho fatto vedere le foto delle nostre attività caritative e l’ho supplicato di continuare a parlare della nostra tragedia. Spesso i media si dimenticano di noi, ma se parla il papa, si ricordano di quello che è successo. Gli ho detto: Noi abbiamo bisogno della Sua voce perché è una voce ascoltata dai politici e dalle comunità. E i cristiani, spinti dalle Sue parole, possono venire in nostro aiuto. Lui mi ha assicurato: Non ti preoccupare. Io continuo a pregare per voi e continuerò a parlare per voi, fino a quando questa terribile Via crucis non finirà’”.
Immersi nell’emergenza profughi
P. Samir Youssef, 41 anni, laureato all’università Gregoriana, è un sacerdote caldeo di Mosul, ordinato nel 1999. Dal 2009 è parroco nella diocesi di Amadiya – Dohuc, dove serve cinque villaggi. P. Samir, è uno dei protagonisti del video “Adotta un cristiano di Mosul”, la campagna lanciata da AsiaNews per sostenere i profughi perseguitati dallo Stato islamico.
Il sacerdote e la sua comunità sono immersi nell’emergenza profughi da almeno due anni: “Prima abbiamo avuto migliaia di profughi cristiani provenienti dalla Siria; poi, quando l’Isis ha conquistato Mosul e la Piana di Ninive, sono arrivati migliaia e migliaia di profughi cristiani e yazidi. All’inizio vi erano almeno 5mila famiglie. Ora nella nostra zona rimangono rifugiate 3600 famiglie cristiane. Le altre si sono trasferite ad Ankawa. Ma non bisogna dimenticare che vi sono almeno mezzo milione di yazidi. Nella mia parrocchia di Inshke ospitiamo 350 famiglie yazide; 85 famiglie cristiane; decine di famiglie musulmane. Negli altri villaggi vi sono in ognuno 50-60 famiglie cristiane, oltre agli yazidi.
Ci siamo trovati davanti a un compito immenso: abbiamo ospitato questa valanga di profughi nelle chiese, nelle scuole, nelle case. A poco a poco abbiamo restaurato edifici dismessi per trasformarle in abitazioni. Dal primo giorno, la chiesa locale dà da mangiare, da bere, medicine, vestiti, carburante… Questo, va detto, grazie alle offerte che ci vengono dai caldei nel mondo, da AsiaNews, dal Santo Padre, dalle conferenze episcopali, dalla Caritas…”
“Nonostante tutto quello che stiamo facendo per cristiani, musulmani e yazidi, ci sono ancora difficoltà. Ad esempio, è necessario portare i bambini profughi nelle scuole, usando l’autobus.
Lo scorso anno l’80% di questi bambini hanno perso l’anno di scuola. Quest’anno vogliamo trovare i fondi per permettere a tutti loro di potersi pagare l’abbonamento all’autobus che li porti a scuola nelle grandi città. Infatti, non tutti i villaggi hanno una scuola.
La maggioranza di loro è senza lavoro. Soprattutto gli uomini si sentono in difficoltà a non fare nulla tutto il giorno. Anche le donne, a stare chiuse nelle tende o nei containers tutto il giorno… Vi è poi la mancanza di privacy: in ogni container o casa vi sono due o tre famiglie insieme. Già vivere qualche mese in questo modo è pesante, ma vivere per un anno intero! Tutti sono lontani da casa e cercando di progettare una vita migliore”.
Le ferite alla convivenza fra cristiani e musulmani
Secondo p. Samir, l’esperienza della persecuzione dei cristiani a Mosul e nella Piana di Ninive
ha messo a dura prova la coesistenza islamo-cristiana in Iraq.
“I cristiani dell’Iraq – spiega - sono immersi nella guerra da 30 anni [la guerra Iran-Iraq; la guerra col Kuwait; le due guerre del Golfo; il dopo-Saddam; l’Isis – ndr]. Eppure, la comunità cristiana ha sempre cercato di resistere e ha continuato a testimoniare la fede per rendere più cristiana e umana la nostra società. I cristiani della pianura di Ninive e di Mosul, riuscivano a vivere, lavorare, andavano a scuola. All’università di Mosul vi erano almeno 2500 giovani cristiani. C’era paura, ma si poteva andare. Ma il giorno che l’Isis ha messo l’aut aut (convertirsi all’islam, o pagare la tassa dei protetti, o essere uccisi), è stato un colpo fatale. Questa gente ha abbandonato tutto e sono andati via senza poter portare nulla perché l’Isis li ha depredati prima di farli partire. Prima vi erano attacchi e bombe, ma queste colpivano in modo indistinto cristiani e musulmani. Quando attaccavano le chiese, i vicini musulmani venivano a mostrarci la loro solidarietà. Ma questa volta l’attacco era mirato. Quello dell’Isis è stato un tentativo di genocidio religioso che è dilagato. In città i vicini di casa musulmani entravano nelle case dei cristiani e si prendevano quanto vi era; le moschee gridavano giorno e notte l’ultimatum ad andare via… E’ stato terribile.
Nella Piana di Ninive è successo lo stesso: in una notte sono fuggiti i cristiani, timorosi che succedesse anche a loro quanto è successo con gli yazidi: invasione delle case; violenze sulle donne; rapiti e uccisi… “.
L’Isis non è tutto l’islam
Chiedo a p. Samir se le ferite profonde riportate dai cristiani fanno loro rifiutare la convivenza.
“Dico una verità: l’Isis non rappresenta tutto l’islam, tutti i musulmani. Cristiani e musulmani hanno vissuto insieme in Medio oriente per molti secoli. Vi sono stati momenti in cui l’islam politico si accaniva contro i cristiani, e contro gli ebrei. Ma se guardiamo alla storia, vediamo che la convivenza ha resistito. Purtroppo, negli ultimi 50 anni, vi è stato uno scivolamento nell’islam politico. In Iraq hanno cominciato col cacciare gli ebrei e ora cacciano i cristiani. Mia madre mi ricorda che quando gli ebrei stavano fuggendo, loro ci dicevano: Oggi è sabato, domani è domenica. Ossia: hanno cominciato a eliminare noi; poi inizieranno a eliminare voi cristiani. E poi con i musulmani laici.
Adesso a Mosul non vi sono cristiani. Ma l’Isis continua ad uccidere ogni giorno tutti i musulmani che non sono d’accordo con loro. Alcuni dottori fuggiti dall’ospedale di Mosul, raccontano che in un anno di Stato islamico, sono state uccise almeno 2mila persone della città fra insegnanti, medici, ufficiali che non sono d’accordo con l’Isis. L’Isis vuole dominare con la paura, per costituire un califfato governato dalla sharia. Lo dicono loro stessi: una pistola ammazza solo una persona per volta; noi uccidiamo con i kamikaze per fare paura. In Iraq c’è una comunità musulmana moderata che vuole invece la convivenza e di continuo ci dicono: Se andate via, l’Iraq senza i cristiani non è più l’Iraq!”.
Il sacerdote spiega che i cristiani, pur essendo una percentuale molto bassa della popolazione (circa il 3%), dal punto di vista dell’impatto sulla società sembrano essere il 40%! “Su 5 medici – esemplifica - 3 sono cristiani; su 7 insegnanti, 5 sono cristiani; ecc… I cristiani hanno un ruolo molto importante nella società. Per questo oggi fra i musulmani vi sono molte voci contro l’Isis, contro l’estremismo, contro la persecuzione dei cristiani.
Giorni fa vi è stata a Baghdad una grande manifestazione per chiedere più elettricità, ma anche per criticare l’atteggiamento dei politici, che sembrano non preoccuparsi della popolazione. Vi erano striscioni che dicevano: ‘Noi vogliamo un Paese laico; noi vogliamo convivere insieme: Non sciiti, sunniti, cristiani, ma irakeni’. Vi sono perfino musulmani che ci chiedono perdono per quanto l’Isis fa contro di noi. Purtroppo il loro modo disumano e il loro odio creano ancora molta paura”.
Cristiani che non emigrano
Il punto però è verificare se fra i cristiani vi è ancora il desiderio di vivere insieme ai musulmani. P. Samir risponde di getto: “Le dico una cosa: la maggior parte dei cristiani irakeni ha parenti in tutto il mondo. Se volessero potrebbero lasciare il Paese e viaggiare verso l‘Australia, gli Stati Uniti, la Germania… Ma loro dicono: l’Iraq è la nostra terra. Tutti i profughi sperano non di emigrare, ma di ritornare alla loro terra, alla loro città da cui sono stati scacciati con violenza. Per questo la Chiesa cerca di aiutare le famiglie profughe a rifarsi una vita. Le case dei cristiani a Mosul sono state distrutte dai bombardamenti o usate dallo SI come depositi di armi e nascondigli e sono saltate… Bisogna cercare di far vivere questi profughi in Kurdistan, fino a che non potranno ritornare alle loro case. Per questo occorre trovare loro del lavoro, delle case, una scuola…”.
“Bisogna trovare dei piccoli progetti per dare loro del lavoro. Per le famiglie che vivono nei containers, la Chiesa può mettere a disposizione del terreno per costruire casette per ogni famiglia. Questo è meglio che affittare case già esistenti. La diocesi di Erbil spende ogni mese almeno 30mila dollari Usa per pagare tutti gli affitti per i profughi. Costruire delle piccole case darebbe subito lavoro ai rifugiati, giovani e adulti, e creerebbe più sostanza per l’avvenire.
Poi c’è il problema del trasporto dei bambini a scuola, dato che le famiglie non hanno soldi per pagare l’abbonamento mensile all’autobus, che si aggira sui 30 dollari al mese.
Infine, stiamo attrezzando alcuni locali della parrocchia con una grande cucina, dove ospitare almeno 4 volte al mese tutti i profughi, per offrire loro un pasto più sostanzioso in un’atmosfera di festa”.
AsiaNews ha deciso di sostenere i progetti suggeriti da p. Samir Youssef. Invitiamo tutti i nostri lettori a fare donazioni secondo le modalità elencate nella campagna “Adotta un cristiano di Mosul”.