P. Dotti: testimone della tenerezza di Cristo in Bangladesh
Il missionario del Pime si occupa di direzione spirituale di preti e suore. Tenuto all’obbligo della segretezza, è riuscito a conquistarsi la fiducia del clero. “Sono un bravo ascoltatore. Se dovessi guardare solo ai numeri, per esempio quante persone ho battezzato, sarei un fallito. Ma il Signore mi tiene a galla perché tutto ciò che viene è un suo dono”.
Rajshahi (AsiaNews) – Una vita passata a servire Cristo in Bangladesh, assistendo i disabili e curando la direzione spirituale di centinaia di sacerdoti e suore “con l’obiettivo di far venire fuori l’essenza persona”: è la storia di p. Carlo Dotti, 73 anni, sacerdote del Pontificio istituto missioni estere (Pime). Ad AsiaNews racconta i suoi 40 anni di missione, trascorsi soprattutto a formare seminaristi accompagnandoli nel discernimento spirituale, predicare nei ritiri e testimoniare il Vangelo con i suoi modi pacati e gentili. Di sé confida: “Il mio servizio missionario in Bangladesh è fare del mio meglio per essere un testimone di Cristo, della sua bontà, tenerezza, compassione e del suo amore per gli uomini, al tempo stesso inserendomi nella Chiesa locale, per dialogare e essere di sostegno al clero”.
P. Carlo è un sacerdote taciturno e riflessivo ma risoluto. “Sono un bravo ascoltatore”, riferisce, e proprio per questa sua indole accogliente riesce a conquistare la fiducia delle persone, che per lui nutrono profondo rispetto. Essendo l’ottavo di dieci figli, racconta, “fin da bambino ho imparato a osservare i fratelli e le sorelle più grandi, capendone gli interessi e le aspirazioni. Non so nemmeno io perchè mai tante persone provino così tanta stima per me. A volte credo che sia più per quello che non faccio”.
Il missionario è nato a Levate, in provincia di Bergamo, il 6 febbraio 1946. Al momento si trova a Rajshahi, nella casa del vescovo, per seguire quei sacerdoti “che tendono un po’ a sbandare. In me trovano una persona con cui possono confidarsi e parlare in segretezza dei propri problemi, da fratello a fratello”. Infatti la direzione spirituale, spiega, “ha il vantaggio di essere segreta, perché è il prolungamento della confessione. Non consiste nel fare prediche, ma porre domande. Da parte mia, cerco di confrontare i loro comportamenti, paure e angosce con la vita cristiana e la Parola di Dio. Essi rimangano confortati e sereni”.
La sua vocazione nasce “in casa”: uno zio paterno, con il suo stesso nome, era un frate cappuccino e ha dedicato tutta la sua vita a fare missione in Brasile. La famiglia “era profondamente cattolica e ci teneva ad avere un figlio che diventasse prete”. P. Carlo entra in seminario da piccolo, “ma aspettavo il segno della chiamata”. All’età di 16 anni inizia a lavorare e continua a attendere un cenno del Padre. Fino a quando un giorno “arriva a casa un bollettino missionario del Pime, dove in copertina c’era scritta una frase: ‘Il Signore chiama giovani e ragazze ogni giorno. Perché non potresti essere tu?’. Quello era il mio segno”.
Nel 1963, a 17 anni, entra nel seminario Pime di Cervignano del Friuli come vocazione adulta, in seguito in quello di Monza e a Milano. “Come tutti i seminaristi – continua – avevo tante domande e dubbi. Ma poi mi mettevo con il cuore aperto in preghiera davanti al Signore e capivo che era lui a chiamarmi”.
Nel 1972 prende parte, insieme a p. GianAntonio Baio (suo compagno di classe), al primo ciclo dell’Oversea Training Program, un progetto che consente di visitare le missioni per “constatare di persona quali sono le condizioni e avere un’ulteriore conferma se siamo adatti o no”. Entrambi visitano il Bangladesh ed entrambi sono lì ancora oggi. “Tra l’altro il Paese era appena uscito dalla guerra per l’indipendenza [ottenuta nel 1971] ed era distrutto. Si può dire bruciato: non c’erano più nemmeno le sementi e gli aratri. Era una situazione drammatica. P. Paolo Poggi, il missionario da cui stavo, riusciva ad addormentarsi solo quando arrivava la sorveglianza dei poliziotti e sentiva i loro pesanti passi su e giù per la veranda. In quell’anno è stato anche assassinato p. Angelo Maggioni, nostro confratello, in un tentativo di furto”.
Di fronte al pericolo della missione, alla concreta possibilità di sacrificare la propria vita, p. Carlo non ha dubbi e sceglie di donare la propria vita a servire Cristo. “Essere missionario – afferma senza preoccupazione – include la possibilità di diventare martire”. Nel 1973 viene ordinato sacerdote e l’anno successivo parte per il Bangladesh. La prima assegnazione è come parroco a Boldipukur, poi per 16 anni gira diverse parrocchie; rientra in Italia per quattro anni poi nel 1995 ritorna per fare il rettore del seminario di Dhaka; in seguito trascorre due anni nella parrocchia di Mirpur, poi per i successivi quattro predica ai ritiri spirituali a Bogra. In quel periodo lavora anche per il dialogo ecumenico con i protestanti, dopo viene assegnato alla Pime House di Dhaka, dove rimane per altri nove anni facendo anche il direttore spirituale dei due seminari della capitale. “Lì ho capito – continua – che il Signore mi aveva dato questo dono”. In seguito viene trasferito nelle Filippine per due anni, infine tra il 2014-2015 rientra a Dinajpur dove si occupa di seguire le novizie delle suore Shanti Rani [congregazione fondata da un vescovo del Pime] e delle suore del vicino monastero. Dopo un altro periodo a Dhaka, oggi è a Rajshahi.
Ripensando alle sfide quotidiane dei sacerdoti e ai dubbi dei seminaristi e delle novizie incontrati nel suo lavoro, riporta: “Tutti si domandano se saranno all’altezza, se riusciranno ad andare d’accordo con i confratelli o soddisfare le aspettative dei fedeli. Sono i dubbi che accomunano i giovani in tutto il mondo. Accanto a questo, c’è la spinta a donarsi per qualcosa di grande”. Tanti di loro, continua, “sono rimasti ispirati dall’esempio di altri preti e suore nei villaggi. Questo li ha spinti a desiderare di mettersi a loro volta al servizio del Signore, a donarsi a Lui, a servire il popolo di Dio e, lì dove è possibile, a portare la luce della fede a coloro che non conoscono Cristo”.
Ogni tanto p. Carlo torna in Italia per fare “il tagliando della salute”, cioè qualche visita medica. Di base però, dice in conclusione, “sono un mandato. La chiamata è per un invio. Sono un inviato, il che vuol dire che non guardo ai risultati immediati, che non sempre arrivano, perché è un altro che fa i conti. Se io guardassi solo al numero dei battezzati, sarei un fallito. I frutti arriveranno quando il Signore vuole, e arrivano quando meno te lo aspetti. Questo è ciò che mi ha tenuto a galla in un Paese in cui la vita quotidiana è così dura: essere consapevole che ottenere dei risultati è difficile, tutto quello che viene è in più ed è dono di Dio”. (A.C.F.)
20/05/2019 15:00