Nella memoria della guerra la via per la “riconciliazione” fra le forze cristiane libanesi
L’incontro fra Aoun e Geagea non cancella gli errori del passato e il ricordo di un conflitto sanguinoso. La storia del Libano parla di un Paese in stato quasi permanente di instabilità. Dalla falsa pace civile alla vera “purificazione della memoria”, in un’ottica di pace, giustizia e verità.
Beirut (AsiaNews) - Lo spettacolare riavvicinamento fra l’ex comandate dell’esercito Michel Aoun e il capo del partito delle Forze libanesi, Samir Geagea, riporta a galla il problema del ricordo della guerra. Questo riavvicinamento si dice che offra un modello di “riconciliazione” fra i nemici di un tempo, due uomini le cui truppe si erano combattute in modo feroce fra il 1989 e il 1990, nel contesto di una “guerra di eliminazione” che ha estenuato entrambi e spianato la strada alla tutela siriana. Ma di che natura è questa “riconciliazione”? Che garanzie possiamo trarne, che essa non sia solo tattica e politica, e che la sorda ostilità latente tra le due formazioni, per via delle loro responsabilità negli abusi, non tornerà a galla un giorno?
Il Dipartimento di storia dell’Università di san Giuseppe e la sezione libanese dell’ong International Centre for Transitional Justice hanno organizzato, nel novembre scorso, una tavola rotonda sul caso particolare del Libano, che potrebbe aiutarci a trovare degli elementi di risposta a queste domande. Cos’è la giustizia transizionale? A grandi linee, essa può essere definita come un insieme di misure giudiziarie e non giudiziarie destinate a rimediare alla storia delle violazioni massicce dei diritti dell’uomo in tempo di guerra e/o di repressione da parte degli Stati. Queste misure comprendono dei procedimenti penali, dei programmi di riparazione, varie riforme istituzionali e la formazione di commissioni di verità e riconciliazione.
Nel contesto dei colloqui sopracitati Carmen Abou Jaoudé, all’epoca direttrice dell’ International Centre for Transitional Justice-Libano, ha affermato: “Per mettere fine alla guerra, abbiamo sacrificato la giustizia e la verità, pensando di ottenere al contempo la pace. Oggi, a distanza di 40 anni, non abbiamo né la pace, né la giustizia, né la verità”.
Dal canto suo Jospeh Maila, professore all’Essec di Parigi e docente a contratto al Dipartimento di storia dell’Usj, richiamando l’accordo di Taëf, assicurava che “la temporalità dei conflitti in Libano non si è mai davvero fermata” e si può parlare di un “continuum” all’interno del quale “la pace si mischia alla violenza”.
Secondo il politologo, questo stato di guerra mai cessata nel quale versiamo, o ancora questo stato di pace incompiuta, riflette la dinamica di uscita dalla crisi del Libano. Una dinamica le cui quattro caratteristiche sono: prima di tutto, il carattere di estraneità della soluzione, il fatto che la soluzione sia venuta dall’esterno; in secondo luogo, il fatto che la pace sia uscita dal circolo ristretto del “cartello dei notabili”, che sono gli stessi personaggi che hanno fatto la guerra e la pace. La terza ragione del continuum è il fatto che il Libano è esso stesso “in uno stato di transizione” continua sin dal giorno della sua nascita.
Di fatto, la storia contemporanea del Libano è quella di un Paese in stato quasi permanente di instabilità, che ha incassato l’urto dello shock provocato dalla “nakba” palestinese nel 1947-48, e poi quello dell’ascesa del nazionalismo arabo, quello della débâcle del 1967, la nascita delle organizzazioni palestinesi, la tutela siriana, delle tre o quattro aggressioni e invasioni israeliane e, oggi, quello dell’egemonia iraniana e della rivalità tra l’Iran e l’Arabia Saudita, così come quello del terrorismo salafita. In poco più di 60 anni di vita, e con il tempo di riprendere appena il fiato fra una crisi e l’altra, è già molto per un Paese dalla natura così eterogenea, essa stessa in evoluzione e mal integrata. Evidentemente, questo giudizio collettivo non esclude altri giudizi particolari che si posso attribuire a una o all’altra comunità.
Infine, quarto e ultimo motivo della nostra falsa pace civile - afferma Jospeh Maila - è il fatto che la legge di amnistia votata dal Parlamento libanese nel 1991 non ha permesso il raggiungimento, o quantomeno la ricerca degli elementi di una vera giustizia, avendo privilegiato “l’amnesia” e l’immunità ai capi delle milizie che avevano accettato la “pace siriana”, piuttosto che la verità. Tutto questo porta a credere che Aoun e Geagea abbiano riprodotto in modo fedele questo modello di pace in superficie, analizzato dai relatori. Non abbiamo certo creduto, per esempio, che nel contesto della cerimonia di “riconciliazione” organizzata nella sede delle Forze libanesi, sarebbe stato necessario osservare un minuto di silenzio in memoria di quanti hanno sacrificato la loro vita per l’una o per l’altra causa. Nessuno dei due uomini ha avuto un pensiero, una parola di riguardo per le vittime del conflitto. Tutto ciò è tanto più sorprendente dato che il dialogo fra le due formazioni non risale a ieri e che, da quando ha avuto inizio, qualcuno avrebbe pur dovuto pensarci. Ma non lo ha fatto. Si è scelto di privilegiare lo spettacolo, ed è stato uno spettacolo in alcuni momenti osceno, con dolci e champagne; in ogni caso, completamente privo di sensibilità.
Questo giudizio non significa che il riavvicinamento fra i due uomini e le loro formazioni non abbia alcun valore. Ma questo valore resta ben al di sotto di quello che è necessario per ricostruire in modo veritiero il legame sociale distrutto dalla guerra, per cicatrizzarne le ferite più profonde; delle ferite che hanno lasciato a volte marchi indelebili, come nei casi di morte o sfregio, di scomparsa, di tortura, di invalidità fisica o psicologica. Ferite che chiedono di essere sanate.
Per fortuna, si è trovato qualcuno che lo possa raccontare. Samy Gemayel, il capo del partito Kataëb, per tradizione rappresentativo dell’elettorato cristiano. Due giorni dopo l’incontro di “riconciliazione”, quest’ultimo ha esortato i due uomini ad andare oltre questo accordo superficiale, e a precedere a una vera “purificazione della memoria”. Quello che non può essere fatto al di fuori di ciò che Carmen Abou-Jaoudé definisce come “un approccio olistico”, un approccio globale che passa inevitabilmente per “il riconoscimento delle violazioni” ai diritti umani commesse. Questo dovrebbe rendere più umili le milizie e le forze che sostenevano di combattere in nome del Libano, ma le cui cause si sono criminalizzate durante il cammino; forze che, da strumenti di difesa e di sicurezza, si sono trasformate in strumenti di potere e di oppressione.
Riprendendo una delle conclusioni della tavola rotonda già citata: “La giustizia tradizionale è quella che mira a ricordare abbastanza per non ricominciare da capo, e dimenticare quanto basta per continuare a vivere. In Libano, sembra che nulla sia stato dimenticato ma anche che non si sia imparato nulla”.
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