Nella Turchia al voto il destino di Erdogan e il futuro di un Paese polarizzato
Il prossimo 14 maggio si terranno elezioni presidenziali e parlamentari, con ballottaggio due settimane più tardi se un candidato non raggiunge il 50% al primo turno. L’attacco dell’Economist al leader turco che ha portato la nazione “sul baratro”. Il peso del voto curdo, la questione migranti e il nazionalismo islamico. Fonte di AsiaNews: il silenzio internazionale nella prospettiva di continuità.
Milano (AsiaNews) - Con una decisione inaspettata, e non priva di polemiche, Recep Tayyip Erdogan ha deciso di anticipare di un mese le elezioni generali previste in un primo momento il 18 giugno e che si terranno il 14 maggio. Una data simbolo per la Turchia, perché come ha ricordato lo stesso presidente coincide con la vittoria alle urne 73 anni prima del conservatore Adnan Mederes, che ha retto il Paese fino al 1960 per poi essere deposto con un golpe militare e giustiziato l’anno successivo. All’epoca si trattava delle prime elezioni libere, vinte dall’esponente del Partito democratico il cui governo è ricordato per lo scontro con la Grecia per il controllo di Cipro e il pogrom ai danni della minoranza interna greca nel 1955.
Esaltando il predecessore, il “sultano” Erdogan si candida per mantenere un potere che detiene, di fatto, da oltre 20 anni: inizialmente come primo ministro fino al 2014 e poi come capo dello Stato, con un ulteriore rafforzamento dei poteri in seguito alla riforma presidenziale da lui stesso voluta. Nel caso in cui nessun candidato riesca ad ottenere una maggioranza del 50% è previsto un ballottaggio il 28 maggio fra i due che hanno ottenuto i maggiori consensi. Secondo gli ultimi sondaggi è improbabile una affermazione al primo turno del 68enne Erdogan, che resta favorito mentre la galassia delle opposizioni deve indicare un nominativo forte e altrettanto autorevole.
L’attacco dell’Economist
I principali sondaggi mostrano che le prossime elezioni presidenziali e parlamentari saranno contraddistinte da una sfida aperta fra partiti di maggioranza, in primis il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Erdogan, e i movimenti di opposizione. L’elettorato resta polarizzato e diviso fra sostenitori e detrattori del presidente, prima ancora che su temi e contenuti di una campagna elettorale poco incisiva. Considerate le difficili condizioni economiche, per il “sultano” si tratta del test elettorale più insidioso dall’ascesa al potere in una fase caratterizzata da crisi interna e attivismo estero. Un quadro incerto, per una nazione che resta pur sempre ai vertici regionali come potenza militare ed è membro dell’Alleanza atlantica (Nato). Al riguardo, proprio in queste ore fa sentire il proprio peso minacciando il veto sull’ingresso della Svezia a causa del rogo del Corano, propaganda anche e soprattutto a uso “interno” secondo una politica a colpi di “nazionalismo e islam” alimentata in questi anni da Erdogan.
Ed è proprio l’ombra del presidente che rischia di oscurare il Paese e farlo sprofondare nel baratro di una crisi che è non solo economica, ma anche politica e sociale almeno secondo l’Economist che in questi giorni ha sferrato un durissimo attacco alla sua leadership. Per il settimanale britannico egli è infatti il leader che ha portato la nazione “sull’orlo del disastro” e a conferma del giudizio snocciola numeri e cifre sullo stato di salute finanziario a pochi mesi dal voto. “Il comportamento di Erdogan - scrive il settimanale - con l’avvicinarsi delle elezioni potrebbe spingere quella che è oggi una democrazia parlamentare imperfetta oltre il limite, verso una dittatura in piena regola”.
In una prima fase del ventennio, la leadership di Erdogan ha avuto effetti positivi a livello economico e in materia di sviluppo e sicurezza. Tuttavia, nel lungo periodo egli si è trasformata in una direzione “autocratica”; con la riforma presidenziale ha stravolto un ruolo prima di allora di gran lunga cerimoniale, in una sala dei bottoni in cui decidere le sorti della nazione. E alcune sue idee “eccentriche” si sono trasformate in “politica pubblica”. Vi è poi secondo l’Economist il trattamento dedicato ai rivali, in primo luogo l’attuale sindaco di Istanbul ed esponente del Chp Ekrem Imamoglu, che sta cercando di affossare anche e soprattutto attraverso la via giudiziaria con accuse e processi. Sul piano internazionale, a fronte di un attivismo finora infruttuoso fra Mosca e Kiev e un tentativo di riallacciare dialoghi con Damasco, le attenzioni di Erdogan verso Grecia e Cipro rischiano di creare nuovi “scontri territoriali”, mentre in Siria il suo approccio - con l’obiettivo di eliminare le sacche curde alla frontiera sud-orientale e garantirsi il controllo di una striscia oltre-confine - rischia di “alimentare confusione e conflitti”. “Erdogan - chiosa l’editoriale - è un bullo che vede la timidezza come ragione per esercitare pressioni a proprio vantaggio e la durezza come incentivo per rafforzare i muri”.
Dai curdi ai migranti, i nodi irrisolti
Una fonte diplomatica di AsiaNews, dietro anonimato perché non autorizzata a parlare con la stampa, racconta di un Paese “molto diviso e di persone semplici molto arrabbiate perché i prezzi sono fuori controllo non solo a causa dell’inflazione, ma pure in termini reali”. Il costo della vita è elevatissimo, mentre gli stipendi spesso non bastano a coprire le spese comprese quelle di base. Il governo prosegue con la politica dei grandi investimenti, dall’edilizia alle opere pubbliche, che nell’immediato creano lavoro ma nel lungo periodo rischiano di rivelarsi una bolla pronta a esplodere.
Vi è poi “una frenetica attività diplomatica” prosegue la fonte, che “riesce a tenere il Paese a galla. Alla fine, chi è di tendenza nazionalista e religiosa voterà Erdogan, poi non è dato sapere cosa succederà dopo, ma fino a maggio lo status quo è destinato a durare in un quadro nazionale con profonde divisioni” anche “sostanziali” fra aree rurali e centri urbani. “Nei turchi musulmani - prosegue - domina un certo fatalismo di fondo, mentre la classe benestante e i ricchi vanno a nozze con questo esecutivo per gli aiuti all’industria e le misure protezionistiche. A questo si affiancano le politiche nazionaliste e la progressiva cacciata dei migranti, che vengono mandati via a raffica. E tendono a non rinnovare nemmeno i visti agli immigrati dall’Europa, nel timore che persone da fuori possano raccontare e denunciare quanto avviene all’interno. Resta il fatto - conclude il nostro esperto - che la ‘minaccia’ curda e i migranti giocano a favore del governo, che può contare anche su un silenzio internazionale che appare molto eloquente perché è come se vi fosse la tacita prospettiva di continuare con l’attuale leadership”.
In questa prospettiva le divisioni interne all’opposizione - laici, islamisti, nazionalisti, partiti pro-curdi - non aiutano a battere Erdogan e l’Akp, anche perché non è stato indicato nemmeno il possibile rivale. Il partito filo-curdo, terza forza in Parlamento, è stato finora escluso dall'alleanza e potrebbe puntare su un nome interno. Erdogan non disdegna l’uso della forza - e della magistratura - come dimostrano le decine di migliaia di arresti e condanne che hanno seguito il fallito golpe dell’estate 2016 e che, in più di un’occasione, sono servite per eliminare rivali o critici. Il leader turco ha risposto a modo suo alle critiche del settimanale britannico affermando, all’uscita dalla moschea dopo il venerdì di preghiera islamico (a conferma del peso della componente religiosa) che “sarà il mio popolo a determinare il destino della Turchia [usando il termine Türkiye, da lui stesso fortemente voluto].
In questo muro contro muro potrebbero essere proprio i curdi l’ago della bilancia, con il loro bacino elettorale: ”Se la coalizione di opposizione - chiosa l’esperto di questioni turche Burak Kaderca - riesce a fare appello alla popolazione curda, probabilmente vincerà le elezioni, mentre se non avranno quel sostegno sarà molto difficile, se non impossibile”.
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