Mons. Nahra: un rene donato, i ‘piccoli gesti’ di speranza per israeliani e palestinesi
Il racconto del vicario del patriarcato latino di Gerusalemme: nel mezzo della guerra un ebreo israeliano ha donato l’organo a un arabo in attesa di trapianto, segno “meraviglioso cui guardare”. “L’odio ti cade addosso, ma bisogna lavorare per costruire”. Il presule conferma la tensione legata alla tenuta della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco, ma servono prospettive di lungo periodo. L'appello: “Pellegrini, vi aspettiamo”.
Milano (AsiaNews) - In questo anno giubilare, la speranza per i cristiani in Terra Santa è “fondata in Dio” e si può vedere “nei piccoli segni, negli incontri fra persone: ricordo nei mesi scorsi, in piena guerra, un nostro conoscente arabo aveva bisogno di un rene e a donarglielo è stato un ebreo israeliano. Sono piccoli gesti, meravigliosi, e a queste cose dobbiamo guardare”. È quanto racconta ad AsiaNews mons. Rafic Nahra, vescovo ausiliare del patriarcato latino di Gerusalemme, dal 2021 vicario patriarcale per Israele, che esorta a soffermarsi anche “sulle cose belle che ci sono. La pace e l’amore si devono costruire - sottolinea il presule di origini libanesi - perché non vengono da sole. L’odio, purtroppo, ti cade addosso, ma sappiamo che vi sono anche tante persone buone, con le quali bisogna lavorare e provare a costruire iniziative in comune”.
Negli ultimi giorni si sono vissuti momenti di profonda tensione nella regione, col rischio di un crollo della fragile tregua che, in queste settimane, ha portato un minimo di sollievo alla popolazione di Gaza martoriata da oltre un anno di guerra. E, al tempo stesso, ha favorito il ritorno di una parte degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas dal 7 ottobre 2023, restituendoli alle loro famiglie mentre altre sono ancora in attesa di riabbracciare i loro cari. “Questa settimana - conferma mons. Nahra - vi era un quadro generale di maggiore tensione, non si sapeva se questa ‘Fase A’ del cessate il fuoco e dello scambio fra ostaggi e prigionieri [palestinesi] sarebbe durato”.
L’opera diplomatica degli attori coinvolti e delle potenze regionali e mondiali ha permesso di puntellare il fragile accordo, rintuzzando venti di guerra che provengono ancora oggi da entrambi i fronti, in particolare dall’estrema destra israeliana che preme per l’escalation. “All’apparenza - racconta il prelato - la tregua sembra continuare, ma è chiaro che è tutta la situazione a non essere stabile, con enormi conseguenze nella vita quotidiana delle persone a partire dall’aumento dei prezzi, perché la guerra ha pure un costo economico e sociale. Tutto è carissimo”.
Al momento la priorità è “far cessare la guerra” conferma mons. Nahra, anche se “in certi gruppi su tutti e due i fronti, ancora oggi, ci si prepara alla guerra. Israele continua ad attaccare i gruppi armati” nella Striscia, mentre in Cisgiordania “ci sono persone che vogliono proseguire con la resistenza. Onestamente, non si vede una cessazione a breve delle violenze e, per il momento, si può sperare di passare da una tregua temporanea alla fine dello scontro armato. Tuttavia - prosegue - servono soluzioni di lungo termine, non si può pensare di congelare oggi il conflitto per poi ricominciare fra cinque o 10 anni. Serve una soluzione che sia di prospettiva” per una società che “è ammalata". In Palestina ma anche in Israele, dove la questione ostaggi “crea grande tensione” perché resta “un piccolo Paese e tantissime famiglie sono toccate e coinvolte”.
Una delle questioni irrisolte, per i cristiani e per lo stesso patriarcato latino di Gerusalemme, è il rapporto con il mondo ebraico. “Ci sono piccoli gruppi - racconta mons. Nahra - che cercano di dialogare di nuovo” ma le criticità, e le distanze restano. “Israele si aspettava un’altra posizione dalla Chiesa sulla guerra, ma la nostra è una posizione di pace, di giustizia che Israele non ha accettato e la fiducia è venuta meno”. Ciononostante, se nelle prime fasi del conflitto “non vi erano più contatti - ammette il vicario - da qualche mese sembrano ripresi alcuni passi. Qui a Nazareth vedo, ad esempio, piccoli gruppi di israeliani che cominciano a visitarci il sabato, che è un buon segno. Piccolo, ma importante. Vi è parte della popolazione [israeliana] - sottolinea - che continua a vederci come estranei; altri capiscono che dobbiamo vivere assieme e costruire una vita comune, non si può restare a lungo così”.
Sulle sfide pastorali, una delle priorità per il patriarcato resta quella del lavoro con le “famiglie” e che va impostato “su livelli diversi. Vi è poi il problema, grave e irrisolto, della violenza nella società araba, che - ammette il presule - non è legato alla guerra a Gaza. Molta gente viene uccisa per mano di gruppi mafiosi, in tantissimi sono coinvolti in seno alla società araba israeliana; in risposta, molte famiglie scelgono di partire, di migrare al di fuori del Paese o di lasciare le città arabe per andare a vivere in quelle miste, perché si sentono più sicuri”. Questo è un “problema gravissimo” sottolinea, ma “ancora non sappiamo che cosa fare: parliamo, chiediamo, ci informiamo, ma resta un tema irrisolto da troppo ormai”. Al tempo stesso “dobbiamo incoraggiare la gente a rimanere, dare loro una ragione per farlo: se un un giovane, oggi, non ha la convinzione che deve restare, come cristiano, se ne andrà altrove anche perché la vita sta diventando difficile”. “Siamo anche chiamati a formarli, perché conoscano meglio la loro fede: nella conoscenza e nella preghiera, la vita si fortifica e si rafforza anche il senso di appartenenza”.
Da ultimo, il vicario patriarcale per Israele rilancia l’appello diffuso il mese scorso dal patriarca latino di Gerusalemme, il card. Pierbattista Pizzaballa, e dal Custode di Terra Santa p. Francesco Patton in tema di pellegrinaggi: “Speriamo davvero che i pellegrini ritornino in Terra Santa, perché la loro presenza è di grande sostegno a tutti i livelli, non solo economico. I pellegrini possono venire, la gente può venire, anche se è chiaro che la situazione può e deve migliorare. Ma per un gruppo che viene a Gerusalemme è possibile visitare anche la Galilea e pure Ramallah, Betlemme. Se lo fanno - conclude il prelato - non è solo un bene per loro, ma è un grande sostegno e aiuto per tutta la Chiesa di Terra Santa. Pellegrini, vi aspettiamo”.
(Foto tratte dalla pagina Facebook del Patriarcato latino)