Mons. Bizzeti: una ‘Chiesa turca’ compimento della missione nel vicariato d’Anatolia
Ieri il pontefice ha accolto la richiesta di dimissioni del prelato, nominando l’ausiliare mons. Ilgit amministratore apostolico. La soddisfazione per la crescita di una realtà “di lingua e di cultura turca”. Il terremoto del febbraio 2023 ferita ancora aperta, serve ricostruire dalle “pietre vive”. La testimonianza di profughi e rifugiati che ampliano gli orizzonti sul piano “culturale, spirituale”.
Milano (AsiaNews) - “Fin dal momento del mio insediamento ho detto che avrei favorito in tutti i modi la nascita di una Chiesa locale, di lingua e cultura turca” e nel tempo “sono rimasto fedele a questo principio” nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II. È quanto racconta ad AsiaNews mons. Paolo Bizzeti, a lungo vicario d’Anatolia di cui papa Francesco ha accolto ieri la richiesta di dimissioni, nominando al suo posto l’ausiliare mons. Antuan Ilgit, ora amministratore apostolico sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis. Nel promuovere la missione il prelato ha sempre considerato “la formazione dei laici un punto molto importante”, insieme “all’accoglienza di quanti vengono in cerca del cristianesimo” mostrandosi capaci di testimoniare le “ragioni della propria speranza, come direbbe san Pietro”. E aggiunge: “è fondamentale una Chiesa consapevole, che rinuncia al proselitismo ma è viva nella società, con una proposta di senso, spiritualità e salvezza”.
Il 77enne gesuita di origini italiane era alla guida della circoscrizione ecclesiastica dal 2015, subentrato in una fase di profonda criticità e tensioni confessionali per l’omicidio, nel giugno 2010 a Iskenderun, del predecessore mons. Luigi Padovese accoltellato dall’autista MuratAltun. Mons. Bizzeti rimane al servizio della chiesa in Turchia come presidente della Caritas, mantenendo dunque ancora un legame forte con la terra in cui ha speso per nove anni la propria missione. Tuttavia, afferma, “io credo che veramente queste Chiese debbano avere pastori che parlano la loro lingua e conoscono la loro cultura; noi stranieri abbiamo fatto una funzione di supplenza, però il futuro è in mano ai cristiani della Turchia”.
Terremoto, ferita aperta
Raccontando la realtà del vicariato, mons. Bizzeti spiega che da mesi il successore mons. Ilgit lo affianca nella gestione della comunità, la cui emergenza principale resta ancora legata al devastante sisma del febbraio 2023 e i “postumi” del terremoto, una ferita ancora aperta. “La cattedrale è ancora distrutta - spiega - la gente fatica a trovare casa o lavoro” e in questo quadro si registrano “le situazioni di maggiore criticità, cui si affianca la pastorale ordinaria” anche se la presenza di un vescovo turco “permetterà un salto di qualità. Ora, finalmente, inizia la storia di una Chiesa davvero locale, con un pastore della propria lingua e cultura”. Fra gli elementi positivi legati al disastro naturale, il prelato sottolinea “la solidarietà che si è venuta creando fra le persone; lo si è visto al momento del sisma quando tutti hanno dato una mano, si sono impegnati, sono cadute tante barriere, si è scoperto che eravamo colpiti dallo stesso dramma e tutti desiderosi di fare qualche cosa: quello è stato un momento davvero notevole”.
La priorità è di restituire “una vita vera, case e attività economiche ai terremotati, ma anche riuscire a trattenere i cristiani che altrimenti scappano: sono già - sottolinea mons. Bizzeti - comunità molto piccole, bisogna cercare di aiutare le persone a rimanere, altrimenti ci sarà uno svuotamento di presenze. La sfida numero uno sono le ‘pietre vive’ poi vi è la cattedrale, ma i muri verranno in un secondo momento”. Nel frattempo, prosegue, la Chiesa locale “è cresciuta nella consapevolezza di sé, nell’importanza del ruolo dei laici, per il quale mi sono battuto e ho fatto anche delle iniziative specifiche di formazione. Oggi i laici in Turchia - afferma – cominciano ad essere consapevoli che la Chiesa del futuro si deve costruire insieme, non può essere demandata agli stranieri o soltanto ai pastori”. E in questa prospettiva il passaggio di consegne con mons. Ilgit, già avvenuto all’atto pratico in questi mesi, si inserisce “in una prospettiva di continuità, anche se non voglio condizionare l’eredità. Tuttavia, penso che tante cose continueranno secondo la linea avviata”.
L’eredità di mons. Padovese e l’islam
Ripercorrendo gli anni da vicario, il prelato non può che partire dalla pesante eredità - e il vuoto - lasciata dal brutale omicidio di mons. Padovese: “La situazione - ricorda - era disastrosa, perché quasi sei anni senza un vescovo avevano privato di risorse, di coordinamento: i fedeli erano ancora sotto shock non solo per la sua morte, ma anche per il fatto che non si facesse niente per dare continuità al lavoro precedente. Quindi l’impegno principale è stato prima di tutto risollevare il morale delle persone, e aiutarle ancora a credere che non era una Chiesa dimenticata”. E in tema di ecumenismo e dialogo interreligioso, prosegue, “in questi anni la Conferenza episcopale ha lavorato molto bene: abbiamo rapporti cordiali con tutte le altre Chiese, in particolare la siriaca per la quale mi sono speso nel tentativo di valorizzarne il patrimonio artistico, di chiese e monasteri anche attraverso la pubblicazione di una guida. Sono stati bei passi e vi è stima reciproca, anche se sono tutte realtà molto piccole che hanno bisogno di consolidarsi e legate a situazioni giuridiche diverse”.
Per quanto riguarda il dialogo islamo-cristiano - in una nazione a larga maggioranza musulmana, in cui la fede influenza anche settori preponderanti della politica - racconta di aver trovato “tantissime persone con una forte spiritualità, una visione della vita sana e pulita”. Vi è il “problema di un islam politico che forse non distingue a sufficienza fra sfera religiosa e politica - sottolinea - ma questo è un problema che riguarda tutto il Medio oriente”. Ciononostante si sono compiuti decisi “passi in avanti, non siamo negli anni delle uccisioni di mons. Padovese, di don Andrea Santoro. Di loro il ricordo è ancora vivo, ma non vi è sterile nostalgia, perché la vita stessa della Chiesa è continuata e altri hanno preso il loro posto”. Resta, infine, un problema più ampio che riguarda l’intera regione che vive una fase “molto complicata” dettata anche da “eccessiva ingerenza delle potenze occidentali, in particolare degli Stati Uniti”. Tuttavia, aggiunge, proprio in questo momento storico Ankara “si sta distinguendo per una proposta (politica) più equilibrata nell’affrontare i conflitti, soprattutto fra governo israeliano e palestinesi: apprezzo molto che vi sia qualcuno che ha il coraggio di denunciare, come papa Francesco, che è in atto un genocidio e questo in Turchia viene detto da tantissime persone, oltre che dal presidente [Recep Tayyip] Erdogan”.
Giovani, profughi e rifugiati
“Questi anni come vicario - sottolinea - sono stati un’esperienza formidabile, perché mi hanno permesso di ampliare gli orizzonti dal punto di vista culturale, spirituale, nell’incontro con altri mondi cristiani e altre realtà. Sarebbe davvero interessante se ogni pastore avesse la possibilità di vivere lontano, qualche anno, in terre diverse dalla propria”. In questa prospettiva il prelato inquadra “i tanti incontri coi rifugiati provenienti da Afghanistan, Iran, Iraq e Siria” che lo hanno sorpreso “con la loro capacità di resilienza, la voglia di lottare, il tentativo di custodire le tradizioni, di implementare la propria fede”. Con i rifugiati è stato anche possibile scoprire una dimensione nuova nel “valore dell’incontro”, perché sono persone “portatrici di una ricchezza interiore, umana, ma anche di impegno lavorativo, di cultura, che fuggono proprio perché non vogliono arrendersi alla logica della guerra, dell’indifferenza. Essi non si curano degli affari propri a discapito degli altri, ma hanno tanto da dare. Rimango allibito - confessa - quando li si considera un peso mentre sono una risorsa”, tanto più per nazioni, soprattutto in Occidente che fanno sempre meno bambini e una popolazione che “invecchia e si rinchiude in se stessa”.
“Io credo che i neofiti, i giovani, i rifugiati sono le grandi risorse di una Chiesa che voglia in pieno il presente e guardare al futuro” sottolinea mons. Bizzeti. “Da qui il mio augurio a mons. Antuan perché possa con le sue capacità implementare quello che io ho appena iniziato. Lo conosco da tantissimi anni” ricorda, sin da quando “è venuto da me alla ricerca della sua vocazione. Io l’ho accompagnato in questa ricerca in una fase iniziale, poi egli ha intrapreso il suo cammino, si è votato agli studi e al ministero con tenacia, un pastore che sinceramente desidera servire la Chiesa e le persone”.
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