03/04/2018, 09.57
MONGOLIA
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Missionario in Mongolia: Diventare cristiani in un Paese buddista (Foto)

di Giorgio Marengo*

P. Marengo vive nelle steppe asiatiche dal 2003. Il racconto del Triduo di Pasqua sotto la tenda-cappella. Il battesimo di otto catecumeni. Il perdono e la riconciliazione tra le famiglie. “La Pasqua ad Arvaiheer è sempre un miracolo di fede che commuove”.

Arvaiheer (AsiaNews) – Nel silenzio di un pomeriggio stranamente grigio per la polvere sollevata dal vento primaverile, ci siamo trovati a pregare nella ger-cappella, la tenda mongola della parrocchia di Arvaiheer. Comincia il Triduo. Non doveva essere tanto diverso quel giorno, mentre i discepoli andavano alla sala superiore dove il Maestro li aspettava. Lui sapeva già, loro erano ignari. E nel giro di poco si son visti lavare i piedi, specchiandosi in quell’acqua sporca che era l’amore allo stato puro. Poi la cena ebraica, che però assume un significato nuovo, inaudito. Anche i cristiani e i catecumeni di Arvaiheer erano stupiti. Dall’acqua del catino a quella della fonte che dopo due giorni avrebbe irrigato la vita per farvi germogliare un rapporto nuovo con Dio Padre…

Il giorno dopo abbiamo contemplato Cristo che non scende dalla croce come i supereroi, ma accetta fino in fondo la condizione umana, arrivando addirittura a morire di morte violenta. Esperienza molto provocatoria per gente abituata a valutare il favore di Dio dal successo mondano e da una vita tranquilla, lontana da malattie e sofferenze. Il cielo era ancora grigio; non c’è venerdì santo che non lo sia.

Poi il ritiro di sabato mattina. Una bella tradizione per aiutare i catecumeni a prepararsi al rito che si svolgerà quella sera e per disporre i battezzati a rinnovare la propria fede e ad accogliere i nuovi membri della comunità. Arriviamo sempre a questo momento con carichi di debolezze e anche di tensioni; sembra quasi che il diavolo ci metta la coda. E nel pianto liberatorio delle confessioni (due ore, nonostante la comunità cristiana non raggiunga le 30 unità e i sacerdoti siano due!) il miracolo di quel perdono che poi ci scambiamo in cappella con un gesto il più possibile concreto. Quest’anno ognuno doveva andare da tutti gli altri e dirgli due parole, “scusami” e “grazie”, prima di abbracciare e farsi abbracciare dall’altro. Altre lacrime e singhiozzi: se la fede non passa anche da questa dimensione emotiva rimane astratta, mentre qui c’è bisogno di tanta concretezza. Persone che per screzi e incomprensioni si ammalano letteralmente (l’espressione che usano è “essere entrati nella bocca di un altro”), tentando il ricorso a lama buddisti e a sciamani perché risolvano “magicamente” quelle loro tensioni, scoprono una profonda liberazione quando riescono a guardarsi in faccia e a perdonarsi, nel nome di Colui che per primo si è fatto carico dei loro fardelli spirituali.

Qui la Pasqua è davvero passaggio. Ognuno lo percepisce a modo suo. I 4 adolescenti (tra i 15 e i 18 anni) che hanno fedelmente seguito i due anni di preparazione prescritti dalle disposizioni della Chiesa locale lo vivono come coronamento di un cammino, ingresso nella comunità degli “adulti” credenti. Chuluuntsetseg è una signora di 50 anni, è stato un avvicinamento lento e progressivo. Baterdene ha 28 anni, 8 dei quali trascorsi tra un ricovero e un’operazione chirurgica, ha incontrato il Signore nella sofferenza e ha capito che c’è qualcuno disposto ad alleviarla per amore di Lui. Infine Otgonerdene e Sainzaya, rispettivamente di 10 e 13 anni, cresciuti praticamente alla missione.

Arriva il momento della veglia pasquale. Nelle prime ore del pomeriggio il cielo si è tinto di ocra e tutto è rimasto avvolto dalla polvere di una tempesta primaverile; si fa fatica a stare in piedi e soprattutto a non mangiare troppa sabbia che scricchiola tra i denti. Il vento cala, senza però cessare e decidiamo di predisporre il fuoco nel punto in cui il muro della casa offre un riparo. Le fiamme s’innalzano non dalla legna, ma dallo sterco secco che una signora della comunità ha comprato per misericordia a una povera donna al mercato. Usukhjargal, il simpatico bimbetto di 8 anni battezzato da piccolo, suggerisce al papà di disporre lo sterco a forma di croce. Così è e poco dopo la luce entra nella ger buia, prima che Gantulga, da buon poeta e cantastorie, declami l’Exultet come fosse una lode mongola. La liturgia scorre armoniosa nelle sue varie parti, fino a quando i catecumeni sono invitati ad avvicinarsi alla grande pietra scavata a forma di croce appesa al tondo centrale della ger, àncora perché la struttura non voli via col vento e insieme legame simbolico dei mongoli tra la loro terra e l’amato cielo. La famiglia cattolica che vive nella steppa al confine col deserto del Gobi ha adesso 8 nuovi membri, che alla fine della celebrazione s’intrattengono per foto-ricordo e per scambiarsi auguri e benedizioni. Il ruolo dei padrini e delle madrine è molto sentito: sono loro ad offrire doni ai neo-battezzati e a riceverne in segno di riconoscenza per aver accettato di fare da guide nella fede.

La Pasqua ad Arvaiheer è così. Ci sono tante cose perfettibili, noi missionari e la gente ci portiamo appresso tanti limiti; eppure è sempre un miracolo di fede che commuove. La domenica di risurrezione i neofiti vengono in chiesa con le loro camicie bianche (realizzate dalle donne del progetto cucito, in perfetto stile mongolo). Dopo messa ci fermiamo a bere il suutei tsai (tè salato con latte) e per l’occasione facciamo anche pranzo a base di khushuur (frittelle di carne) cucinate da una signora della comunità. La vita da queste parti è dura, non concede tanta poesia; nei due giorni di tempesta di polvere, i pastori hanno continuato a vegliare le greggi nel delicato momento dei parti primaverili. Non si fanno tanti complimenti, ci sarà da “resistere” di nuovo a tante prove; ma adesso queste persone hanno nel cuore una speranza nuova e sanno che il “Dio del Cielo” è sceso per loro e li ha presi con sé per accompagnarli ogni giorno, fin dentro all’eternità.

*missionario della Consolata

Pasqua 2018 in Mongolia
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